Diabetoporosi, una nuova entità nosologica

(da M.D.Digital)   L’osso fragi(da M.D.Digital)   L’osso fragile del paziente diabetico. Si tratta di una condizione evidenziata in numerosi studi epidemiologici, che hanno sottolineato l’impatto dei rischio fratturativo in questi soggetti, nei quali la frattura può verificarsi anche con un decennio di anticipo rispetto a quanto accade nella popolazione generale. A parità di età il rischio di frattura è da 3 a 5 volte più elevato in caso di diabete di tipo 1 del 50% più alto nel diabete di tipo 2, ed è tanto più evidente quanto maggiore è la durata della malattia o il controllo della stessa non è soddisfacente.  Questa correlazione è ben comprensibile nel diabete di tipo 1 in cui la densità minerale ossea risulta ridotta rispetto al dato medio della popolazione generale. AL contrario non appare chiara l’associazione nel diabete di tipo 2, condizione in cui è difficile evidenziabile una minore densità ossea a motivo dell’incremento ponderale e della maggiore quantità di grasso corporeo che contribuiscono a invalidare la diagnosi densitometrica dell’osteoporosi (T-score).  I meccanismi che portano alla frattura sono quindi diversi a seconda del tipo di diabete. Nel diabete di tipo 1, l’iperglicemia cronica esercita effetti deleteri sul metabolismo osseo: la formazione ossea è compromessa a causa degli effetti tossici diretti di glucosio e/o dei prodotti finali della glicazione avanzata (AGE) sugli osteoblasti. A ciò si aggiunge anche un effetto sulla differenziazione delle cellule mesenchimali che si differenziano in osteoblasti e adipociti, in particolare a causa di uno sfondo di flogosi cronica, di meccanismi autoimmuni causa di ipogonadismo e di anomalie dei recettori della vitamina D.   Inoltre, è noto che gli osteoblasti necessitano di glucosio per la loro sopravvivenza, e che una glicemia elevata riduce il numero di trasportatori del glucosio, come nel caso del bambino con diabete di tipo 1 nel quale si osserva una ridotta osteoformazione che spiega perché questi pazienti hanno minore densità minerale ossea. BMD inferiore di questi pazienti.
Nel diabete di tipo 2, l’obesità porta a un sovraccarico articolare, mentre l’insulino-resistenza determina condizioni di iperglicemia dannose per il tessuto osseo. In una seconda fase, l’osteopenia diabetica derivante da questi meccanismi risente anche delle anomalie microvascolari e della presenza di stress ossidativo caratterizzato dalla presenza massiccia di prodotti finali della glicazione (AGE) tra cui la pentosidina è probabilmente la più uno dei più facili da dosare.
Nel diabete di tipo 2 la definizione più calzante è quella di fragilità ossea, imputabile alla presenza di AGE che, legandosi con difficoltà al collagene riducono la coesione ossea. Inoltre l’obesità, un così frequente riscontro nel soggetto diabetico, comporta uno stress maggiore sulle articolazioni. Il tessuto addominale è poi una sede importante di sintesi di citochine infiammatorie che a loro volta esercitano effetti deleteri sulla matrice ossea.  Alterazioni del collagene e presenza di fattori pro-infiammatori lavorano in sinergia nel ridurre la resistenza ossea, evidenziabile con aumento della porosità corticale dell’osso del diabete di tipo 2. Questo effetto negativo si raddoppia man mano che aumenta il lasso di tempo in cui sono presenti le anomalie microvascolari specifiche del diabete.
In sintesi, è quindi la qualità dell’osso e non la sua quantità che viene alterata nel paziente con diabete di tipo 2. Il rischio di frattura di questi soggetti dovrebbe quindi essere preso in considerazione, in particolare trattando in modo aggressivo i fattori di rischio vascolare (facendo ricorso a statine, farmaci noti per avere un effetto favorevole sull’osso),evitando quei farmaci antidiabetici che aumentano il rischio di osteoporosi (quali per esempio i tiazolidinedioni) e favorendo gli agenti anti-osteoporosi in grado di preservare la funzione pancreatica, quale potrebbe essere il caso di denosumab.
(Ferrari S. Pathophysiology of bone fragility in diabetes. WCO-IOF-ESCEO 2018. Cracovia, 19-22 aprile 2018.)le del paziente diabetico. Si tratta di una condizione evidenziata in numerosi studi epidemiologici, che hanno sottolineato l’impatto dei rischio fratturativo in questi soggetti, nei quali la frattura può verificarsi anche con un decennio di anticipo rispetto a quanto accade nella popolazione generale. A parità di età il rischio di frattura è da 3 a 5 volte più elevato in caso di diabete di tipo 1 del 50% più alto nel diabete di tipo 2, ed è tanto più evidente quanto maggiore è la durata della malattia o il controllo della stessa non è soddisfacente.  Questa correlazione è ben comprensibile nel diabete di tipo 1 in cui la densità minerale ossea risulta ridotta rispetto al dato medio della popolazione generale. AL contrario non appare chiara l’associazione nel diabete di tipo 2, condizione in cui è difficile evidenziabile una minore densità ossea a motivo dell’incremento ponderale e della maggiore quantità di grasso corporeo che contribuiscono a invalidare la diagnosi densitometrica dell’osteoporosi (T-score).  I meccanismi che portano alla frattura sono quindi diversi a seconda del tipo di diabete. Nel diabete di tipo 1, l’iperglicemia cronica esercita effetti deleteri sul metabolismo osseo: la formazione ossea è compromessa a causa degli effetti tossici diretti di glucosio e/o dei prodotti finali della glicazione avanzata (AGE) sugli osteoblasti. A ciò si aggiunge anche un effetto sulla differenziazione delle cellule mesenchimali che si differenziano in osteoblasti e adipociti, in particolare a causa di uno sfondo di flogosi cronica, di meccanismi autoimmuni causa di ipogonadismo e di anomalie dei recettori della vitamina D.   Inoltre, è noto che gli osteoblasti necessitano di glucosio per la loro sopravvivenza, e che una glicemia elevata riduce il numero di trasportatori del glucosio, come nel caso del bambino con diabete di tipo 1 nel quale si osserva una ridotta osteoformazione che spiega perché questi pazienti hanno minore densità minerale ossea. BMD inferiore di questi pazienti.
Nel diabete di tipo 2, l’obesità porta a un sovraccarico articolare, mentre l’insulino-resistenza determina condizioni di iperglicemia dannose per il tessuto osseo. In una seconda fase, l’osteopenia diabetica derivante da questi meccanismi risente anche delle anomalie microvascolari e della presenza di stress ossidativo caratterizzato dalla presenza massiccia di prodotti finali della glicazione (AGE) tra cui la pentosidina è probabilmente la più uno dei più facili da dosare.
Nel diabete di tipo 2 la definizione più calzante è quella di fragilità ossea, imputabile alla presenza di AGE che, legandosi con difficoltà al collagene riducono la coesione ossea. Inoltre l’obesità, un così frequente riscontro nel soggetto diabetico, comporta uno stress maggiore sulle articolazioni. Il tessuto addominale è poi una sede importante di sintesi di citochine infiammatorie che a loro volta esercitano effetti deleteri sulla matrice ossea.  Alterazioni del collagene e presenza di fattori pro-infiammatori lavorano in sinergia nel ridurre la resistenza ossea, evidenziabile con aumento della porosità corticale dell’osso del diabete di tipo 2. Questo effetto negativo si raddoppia man mano che aumenta il lasso di tempo in cui sono presenti le anomalie microvascolari specifiche del diabete.
In sintesi, è quindi la qualità dell’osso e non la sua quantità che viene alterata nel paziente con diabete di tipo 2. Il rischio di frattura di questi soggetti dovrebbe quindi essere preso in considerazione, in particolare trattando in modo aggressivo i fattori di rischio vascolare (facendo ricorso a statine, farmaci noti per avere un effetto favorevole sull’osso),evitando quei farmaci antidiabetici che aumentano il rischio di osteoporosi (quali per esempio i tiazolidinedioni) e favorendo gli agenti anti-osteoporosi in grado di preservare la funzione pancreatica, quale potrebbe essere il caso di denosumab.
(Ferrari S. Pathophysiology of bone fragility in diabetes. WCO-IOF-ESCEO 2018. Cracovia, 19-22 aprile 2018.)