Al mio paziente ignoto
(di Atul Gawande, New Yorker 2 giugno 2018) Il principio fondamentale della medicina, da molti secoli a questa parte, è che tutte le vite hanno lo stesso valore. Non sempre noi che ci occupiamo di medicina teniamo fede a questo principio. Lo sforzo per colmare il divario tra aspirazione e realtà ha occupato l’intero corso della storia. Ma quando questo divario viene messo in luce – quando si scopre che alcuni vengono curati peggio di altri, o non vengono curati affatto, perché non hanno soldi o le conoscenze giuste, per la loro estrazione sociale, perché hanno la pelle scura o un cromosoma X in più – quanto meno ci vergogniamo. Al giorno d’oggi non è per niente facile sostenere che tutti siano ugualmente degni di rispetto. Eppure non è necessario provare simpatia o fiducia nei confronti di una persona per credere che la sua vita meriti di essere difesa. Pensare che tutte le vite abbiano lo stesso valore significa riconoscere che c’è un nucleo comune di umanità. Se non si è aperti all’umanità delle persone, è impossibile curarle in modo adeguato. E per vedere la loro umanità bisogna mettersi nei loro panni. Ciò richiede la disponibilità a domandare alle persone come si trovano, in quei panni. Richiede curiosità nei confronti degli altri e del mondo. Viviamo in un momento pericoloso, in cui ogni genere di curiosità – scientifica, giornalistica, artistica, culturale – è sotto attacco. Questo succede quando rabbia e paura diventano emozioni prevalenti. Sotto la rabbia e la paura c’è spesso la sensazione fondata di essere ignorati e inascoltati, l’impressione diffusa che agli altri non importi come si sta nei nostri panni. E allora perché offrire la nostra curiosità a qualcun altro? Nel momento in cui perdiamo il desiderio di capire – di lasciarci sorprendere, di ascoltare e testimoniare perdiamo la nostra umanità. (articolo ripreso da Giovanni De Mauro, su ‘Internazionale’ n.1260, 15/21 giugno 2018).