Stiamo sovrastimando il rischio cardiovascolare dei nostri pazienti ?
(da Cardiolink) La corretta definizione del rischio cardiovascolare rappresenta il momento centrale nel percorso decisionale del clinico che si trova a valutare l’approccio terapeutico più adeguato, in termini di target e strategia di trattamento più opportuna. La recente pubblicazione dello studio ARRIVE (Aspirin to Reduce Risk of Initial Vascular Events) pone dubbi sulla reale capacità delle carte del rischio di comune utilizzo nella pratica clinica di individuare correttamente il rischio di eventi cardiovascolari nei nostri pazienti. Lo studio ARRIVE ha arruolato pazienti con un rischio moderato di sviluppare un primo evento cardiovascolare (uomini con età >55 anni e tra 2 e 4 fattori di rischio e donne di età >60 anni con 3 o più fattori di rischio) randomizzati ad aspirina 100 mg/die o placebo. Il rischio a 10 anni stimato con il Framingham CHD score è risultato pari a circa 14% mentre quello stimato con ACC/AHA ASCVD risk score è risultato pari a circa 17%. Al termine dello studio la frequenza di eventi cardiovascolari su base aterosclerotica normalizzata a 10 anni è risultata pari a circa 8.4%. E’ evidente la necessità di una revisione delle attuali carte del rischio, basate su dati derivati da coorti ormai datate, diverse dalle attuali popolazioni di pazienti che nella generalità dei casi ricevono molteplici trattamenti efficaci nel ridurre il rischio cardiovascolare. Non sorprende, quindi, che nello studio ARRIVE il numero degli eventi osservati sia risultato pari a circa 1/3 di quello atteso (550 vs 1488), con le ben immaginabili ricadute in termini di potenza dello studio. Sorprende, invece, e anche molto, il fatto che uno studio che avrebbe dovuto fare chiarezza sull’efficacia di aspirina in prevenzione primaria abbia avuto un tasso di discontinuazione approssimativamente del 40%. “I farmaci non funzionano in chi non li prende” sentenziava anni orsono Everett Koop e questo sembra il caso dello studio ARRIVE visto che se l’analisi intention-to-treat non ha evidenziato alcuna efficacia di aspirina, quella per-protocol ha dimostrato una significativa riduzione dell’infarto miocardico. Onore all’onestà intellettuale degli autori dello studio che segnalano che “…l’assenza di un effetto evidente di aspirina nell’analisi intention-to-treat e l’evidenza di differenze significative nell’analisi per-protocol suggerisce che la compliance possa avere giocato un ruolo”. Non a caso concludono il lavoro non certo bocciando definitivamente l’uso di aspirina in prevenzione primaria ma asserendo “…La decisione globale sull’uso di aspirina in prevenzione cardiovascolare dovrebbe essere presa con l’aiuto di un clinico, data la complessità del calcolo del preciso rapporto costi/benefici”. Nulla di più e nulla di meno rispetto a quello che il clinico faceva prima dell’arrivo dello studio ARRIVE. Verrebbe quasi da commentare “quello che gli studi non dicono”.
(Gaziano JM et al. Lancet 2018; 392: 1036–46.)