Malattie neurodegenerative, nuove speranze da un farmaco per l’ipertensione

(da Doctor33)  Felodipina, un farmaco attualmente usato per l’ipertensione, potrebbe essere un candidato promettente per il trattamento di patologie neurodegenerative, secondo uno studio pubblicato su ‘Nature Communications’. In sperimentazioni su modelli animali, la molecola ha infatti dimostrato la capacità di indurre un processo di autofagia in grado di eliminare le proteine tossiche dalle cellule cerebrali. «I nostri dati suggeriscono che felodipina induca l’autofagia nei neuroni e aumenti la rimozione di huntingtina mutante, caratteristica della malattia di Huntington, alfa-sinucleina mutante, presente nel morbo di Parkinson, e proteina tau, tipica del morbo di Alzheimer» spiega David Rubinsztein, della University of Cambridge, autore senior dello studio. «In particolare dobbiamo sottolineare che felodipina riesce a rimuovere l’alfa-sinucleina mutante dal cervello dei topi a livelli ematici simili a quelli che si vedrebbero negli esseri umani che assumono il farmaco per l’ipertensione» aggiunge. Gli esperti hanno utilizzato topi e zebrafish geneticamente modificati per il loro studio. I topi presentavano infatti alterazioni geniche che li inducevano a sviluppare la malattia di Huntington o una malattia simile a quella di Parkinson, mentre i pesci avevano alterazioni che inducevano cambiamenti simili a una demenza.   I ricercatori hanno inserito minipompe sotto la pelle dei topi per consentire la somministrazione di concentrazioni di farmaci a livelli simili a quelle utilizzate negli uomini e per mantenere i livelli stabili senza fluttuazioni. Ebbene, il trattamento con felodipina ha ridotto l’accumulo delle proteine tossiche e dei segni della malattia nei modelli murini della malattia di Huntington e del morbo di Parkinson, nonché nel modello di demenza in zebrafish. «I dati che abbiamo rilevato dopo questa somministrazione con pompe suggeriscono che, a concentrazioni plasmatiche simili a quelle tollerabili nell’uomo, la felodipina possa indurre autofagia nel cervello dei modelli animali ed eliminare le proteine che sono alla base di alcune malattie» scrivono gli autori. Tuttavia, questi risultati rappresentano solo un inizio, come sottolinea Rubinsztein. «Dobbiamo essere cauti, ma vorrei dire che possiamo essere cautamente ottimisti. Il farmaco ora secondo noi merita di essere testato nell’uomo» conclude l’esperto.
(Nat Commun. 2019. Doi: 10.1038/s41467-019-09494-2
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31000720)