L’assurdo derby tra vaccino e cure

(da Univadis)   Il confronto ha ormai assunto i toni di un dialogo tra tifosi di due squadre avversarie e storicamente inconciliabili: tra i medici ci sono da un lato i sostenitori della vaccinazione di massa, alcuni dei quali scherniscono chi difende l’importanza di un trattamento precoce, e dall’altro quelli che, rivendicando il loro ruolo sul territorio rispetto agli ospedalieri, talvolta lasciano intendere al pubblico che le cure domiciliari per Covid-19 possano essere in qualche modo un’alternativa all’immunizzazione.  Non è così e non ci dovrebbe essere bisogno di sottolineare che la contrapposizione non ha alcun senso, ma forse può essere utile soffermarsi a riflettere, a freddo, sul tema.   SARS-CoV-2 ha due caratteristiche che, combinate, contribuiscono a trarre in inganno: per fortuna comporta un tasso di letalità relativamente basso, tanto che per la larga maggioranza dei contagiati si risolve in una forma influenzale più o meno grave, ma dalla sua, soprattutto nella nuova variante delta ormai prevalente, ha in compenso un’elevata contagiosità. Scrivo cose ovvie per chi legge, lo so, ma vorrei riflettere su come queste proprietà del virus possano determinare distorsioni cognitive capaci di portarci fuori strada, facendoci commettere gravi errori di valutazione.  Il più grave è quello di sottovalutare l’infezione. Oggi che, grazie alla vaccinazione di massa degli anziani, l’età media dei contagiati è scesa sotto i trent’anni, possiamo affermare che ben oltre il 99% dei contagiati guarisce da Covid-19. Davanti a questo dato, l’attenzione dedicata alla pandemia può sembrare eccessiva. Il continuo appello alla vaccinazione, spropositato.   Eppure, anche sorvolando sulle conseguenze a medio e lungo termine dell’infezione – quel “long covid” di cui si parla ancora troppo poco, anche per giovani e adolescenti reduci da forme lievi della malattia – le percentuali in questo caso possono essere fuorvianti .   Data infatti l’elevata contagiosità della variante delta di SARS-CoV-2, in una popolazione che comprende ancora milioni e milioni di individui suscettibili (tra i quali milioni di quarantenni, cinquantenni e oltre), quell’1% può tradursi in un numero tutt’altro che trascurabile di vittime. E, se il virus fosse lasciato circolare liberamente, oltre alla punta dell’iceberg che non ce la farà, ci sarebbero decine di migliaia di pazienti che resterebbero segnati per mesi dalla malattia e prima affollerebbero i pronto soccorso, gli ospedali e le terapie intensive, sottraendo risorse per il trattamento di altre condizioni e provocando, indirettamente, un ulteriore carico di malattia e di morte.   Il vaccino non può impedire completamente il rischio di trasmissione, ma lo riduce, così come limita moltissimo la possibilità di ammalarsi, soprattutto di forme gravi.Lo dicono i dati che in questi giorni mostrano l’enorme discrepanza di pazienti vaccinati e non vaccinati nelle terapie intensive in diversi Paesi del mondo. Gli stessi medici che oggi si prendono cura dei loro assistiti a domicilio riuscirebbero a prestare loro la stessa attenzione se il loro numero decuplicasse?

Curare va bene, ma non c’è dubbio che se si può prevenire una malattia, questo approccio sia da preferire. Non parliamo di infezioni da HIV o HCV, il cui contagio è subordinato a situazioni di rischio, per cui l’esistenza di una cura efficace ha scoraggiato a lungo la ricerca di un vaccino. Un virus respiratorio con un R0 elevato come la variante Delta di SARS-CoV-2, se non viene in qualche modo contenuto, con misure non farmacologiche o con i vaccini, dilaga così rapidamente da rendere impossibile qualunque trattamento. Per pensare a un’alternativa occorrerebbe avere farmaci antivirali a disposizione di tutti, facili da somministrare ai primi sintomi, e di provata efficacia nel sopprimere l’infezione.  Invece, se con dati su centinaia di milioni di persone vaccinate oggi disponiamo di prove inequivocabili sull’efficacia dei vaccini, non altrettanto si può dire delle cosiddette “cure domiciliari”. Anche qui subiamo un’illusione ottica, provocata dalla combinazione bassa letalità/alta contagiosità del virus. Se il 99% dei pazienti guarisce, almeno 9 su 10 senza bisogno di ricorrere alle cure ospedaliere, è molto difficile capire se l’aggiunta di ulteriori trattamenti nelle fasi precoci della malattia interviene davvero a ridurre il rischio, per quell’unico soggetto – imprevedibile a priori – che senza sarebbe andato male. Come accade per molti trattamenti alternativi o no, usati per condizioni poco gravi e autolimitanti, la casistica di un medico, che in più potrebbe inconsciamente cercare conferma all’utilità del proprio intervento e del proprio ruolo, non può fornire una prova di efficacia della cura. Ci vogliono dati significativi dal punto di vista statistico, che non si ottengono sommando l’aneddotica di un gruppo di clinici.   L’indicazione di un’utilità delle cure deve arrivare da trial randomizzati e controllati, condotti con metodi abbastanza rigorosi da guadagnarsi la pubblicazione sulle principali riviste internazionali. E quando questi lavori sono stati realizzati, hanno ripetutamente bocciato idrossiclorochina, ivermectina, vitamine o integratori a supporto del paziente Covid-19 nella prima fase della malattia.

Fondamentale invece, ed è confermato, soprattutto nei pazienti a rischio allettati, la somministrazione di eparina. E il desametasone, ma solo a polmonite conclamata, mentre nelle fasi più precoci è controindicato perché può aggravare la situazione riducendo le difese del paziente.  Ci sono poi gli anticorpi monoclonali, in cocktail e monoterapia, che ancora stanno cercando un loro posto nei protocolli di cura, posto che probabilmente troveranno molto più facilmente se e quando riusciranno a essere autorizzati prodotti da somministrare intramuscolo o sottocute, così da poter essere utilizzati senza rischio a domicilio. Ciò eviterebbe la necessità di ricorrere a una struttura protetta per l’infusione in vena, come richiesto da quelli attualmente in commercio.  Nuove prospettive potrebbero venire anche dalla budesonide, che secondo uno studio pubblicato su Lancet, sembrerebbe abbreviare, almeno in base alla valutazione soggettiva del paziente, la durata della malattia. Troppo presto, tuttavia, per prescriverlo ai pazienti con Covid-19: prima di un’autorizzazione da parte delle agenzie regolatorie occorrono conferme di effetti più significativi sul rischio di ricovero e morte.

Sul fronte delle cure ospedaliere, intanto, è possibile che si dimostrino utili altri trattamenti, oltre agli steroidi e agli anti IL6. L’Organizzazione mondiale della sanità ha appena dato il via a nuovi trial nell’ambito di un’iniziativa denominata Solidarity PLUS. Migliaia di ricercatori in oltre 600 ospedali di 52 Paesi proveranno a utilizzare contro Covid-19 tre farmaci già disponibili: l’antimalarico artesunato, l’antineoplastico imatinib e l’anticorpo monoclonale infliximab.   Tutti sperano che anche altri prodotti si rendano disponibili non solo per curare i pazienti in ospedale, ma anche per evitare di mandarceli. Trovare trattamenti efficaci è fondamentale, ma in nessun modo questi possono vanificare il ruolo essenziale dei vaccini. Allo stesso modo, i vaccini da soli non bastano, perché ci sarà sempre qualcuno che sfugge alla loro protezione. Sono entrambi strumenti indispensabili. Scegliamoceli che funzionino.