Carie. Il fardello che dovre(m)mo portare

(da Odontoiatria33)   Il termine anglosassone ‘burden’ può essere associato, come spesso accade, a vari vocaboli italiani: quello che meglio lo rappresenta è fardello, ovvero carico da sopportare. Questo peso, del quale dovrem(m)o farci carico è quello legato alla carie, entità nosologica in via d’estinzione nella nostra civiltà europea, ma elemento tutt’altro che indifferente nelle altre popolazioni mondiali.  La carie è problematica cogente in numerosi “mondi” diversi dal nostro, è fortemente connessa con le condizioni sociali delle persone e colpisce la parte più giovane delle popolazioni, generando un carico di patologia e di terapia progressivamente crescente nel corso degli anni. Tutto notorio, ma lo ri-afferma uno studio meta-analitico pubblicato sul ‘Journal of Dental Research’, che si rifà a lavori degli anni scorsi, ma che conserva intatta la propria validità. Questo significa – particolarmente in Italia, luogo di consistenti migrazioni – avere un fardello di possibile terapia in persone che svolgono lavori umili, con una capacità di spesa ridotta e una necessità di cura non facilmente rinvenibile nelle realtà cliniche nazionali. 

Recentemente, un gruppo di ricercatori italiani, facente capo a Guglielmo Campus e Maria Grazia Cagetti, coscienza storica dell’epidemiologia nazionale – ha esaminato un campione di bambini attorno ai quattro anni, sul territorio italiano, per saggiare la relazione tra prevalenza di carie e il contesto sociale in cui i bambini crescevano, rilevando una correlazione molto significativa con il grado di istruzione dei genitori e le disponibilità economiche degli stessi. Al diminuire di questi due valori si associava un graduale e importante aumento della prevalenza di carie; certamente non una sorpresa, ma un dato che fa comprendere quanto, ancor oggi, sia voluminoso il carico che spetterà alle nuove generazioni di odontoiatri.   Questi, volenti o nolenti, non potranno risolvere queste situazioni con comportamenti al di fuori della coscienza clinica. Egualmente, i sistemi sanitari dovranno adoperarsi per fornire soluzioni adeguate a quella fascia di popolazione, sia essa nativa o migrante, che chiede risposte a questo male che ha radici culturali, ancor oggi, ben più profonde di quanto possa apparire.

 Un problema formativo, prima che clinico, che richiederà interazioni molto complesse con modalità di comunicazione che siano adeguate alle nuove generazioni e a soggetti con formazioni cognitive molto distanti dalle nostre. E qui il problema culturale sarà anche dei clinici e non solo dei potenziali pazienti.   Al fine di codificare al meglio queste condotte preventive, Paesi illuminati potrebbero mettere a punto programmi formativi esportabili, da regione a regione, da nazione a nazione; poca cosa se pensiamo alla guerra nucleare incombente, molto se si riflette quanto dissimile da noi sia la cognizione di questo problema, per noi ormai derubricato a eccezione, per altri, purtroppo, dolorosa regola.