“Me lo ha ordinato il dottore”: ha ancora senso dirlo?

(da IlCorriereDellaSera.it – Sandro Spinsanti)   Credetemi, sono un medico: era il titolo di un programma televisivo inglese. È arrivato all’attenzione perché Michael Mosley, il medico che lo conduceva è morto incidentalmente in un’isola greca in cui si trovava in vacanza. Pagato il tributo di pietas per la sua scomparsa, vale la pena riflettere sul titolo del programma che lo ha reso celebre. Ci troviamo a esplorare un territorio problematico: quello della fiducia che sostanzia il rapporto tra chi eroga le cure e chi le riceve. Per lunghissimo tempo la figura del medico è stata sinonimo di autorevolezza indiscussa. «Mica me lo ha prescritto il medico» era un modo di dire che traduceva la fiducia su cui poggiava la relazione. Al medico si chiedeva di prendere le decisioni «in scienza e coscienza», al malato di seguirle con fiducia. Un modello che oggi non è più proponibile tale e quale.  È in crisi l’appello alla coscienza.

Implicava che le scelte fossero finalizzate solo al miglior vantaggio del malato. Forse non molti hanno la franchezza di porre la domanda brutale: «Dottore, perché mi prescrive questo?», ma il dubbio che la risposta: «Per il tuo bene!» non sia sempre giustificata grava su molti rapporti. A inquietare non è solo l’ombra degli interessi delle aziende farmaceutiche, ma anche l’incombere delle restrizioni nella gestione della sanità pubblica. Il sospetto è che le prescrizioni siano più orientate al rispetto del budget. Anche l’altro pilastro della fiducia del passato – la scienza del medico – è messo in discussione da quando basta un clic per far ricorso al «dottor Google». Il modello di rapporto asimmetrico è entrato in crisi e chiede una modalità diversa di strutturare la fiducia. Perché oggi chiediamo che la cura sia personalizzata e ciò esige, prima ancora dell’informazione, l’ascolto della persona malata. Nonché la considerazione di ciò che per lei ha valore e determina una vita di qualità. In questo scenario ideale ci sono molti modi diversi di praticare la medicina. I professionisti scelgono, più o meno consapevolmente, che tipo di medico essere; ovvero, con linguaggio sociologico, quale postura assumere. C’è quello a cui interessa curare le malattie, non i malati (tipo il dottor House televisivo); quello riduzionista, che ha orecchio solo per le scienze biologiche ed è insensibile alle Medical Humanities e alla medicina narrativa; il filantropo benevolo e il «protocollista», preoccupato di attenersi a protocolli e linee guida. La varietà delle posture è enorme e convivono simultaneamente. Per questo non basta più chiedere la fiducia per il solo fatto che uno si presenta come medico; bisognerà anche specificare in quale ambito del mondo dei curanti si colloca. E il cittadino dovrà essere consapevole di quale modalità di cura chiede. La medicina oggi non è un abito a taglia unica e la cura sartoriale richiede un impegno da ambo le parti.