Un adolescente su sette ha comportamenti autolesionistici. Rischio dipendenza

(da Doctor33)   In Italia un adolescente su sette manifesta comportamenti autolesionistici, che risultano in crescita in tutto il mondo occidentale. Pubblicata sulla rivista Suicide a cura dei ricercatori dell’Università del Queensland, in Australia, una revisione di una dozzina di studi condotti tra Usa, Canada e Gran Bretagna stima che in questi Paesi il fenomeno coinvolga addirittura il 20% degli adolescenti.
Anche se difficile da quantificare in modo preciso, l’autolesionismo è dunque estremamente diffuso.
«Si tratta di una strategia di coping, di regolazione emotiva nei confronti di tutto ciò che viene vissuto come indesiderato e intollerabile, – dice Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia – il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato di tollerabilità: a fronte di una sofferenza che non sa come gestire, la porta sul piano del dolore fisico. Le modalità sono diverse, ma la più frequente è quella del cosiddetto autolesionismo stereotipico, con comportamenti ripetuti, costanti, ritmici, apparentemente senza significati simbolici. Nella maggior parte dei casi, si tratta di ferite superficiali, con tagli, bruciature o abrasioni che producono un lieve danneggiamento dei tessuti, ma si tratta anche di una forma di comunicazione e richiamo dell’attenzione. Viviamo nella cosiddetta “società emozionale”, in cui tutto diventa emozione, che a volte viene sentita come debordante, mentre le strutture psicologiche non sono così salde per poterle contenere; in questo contesto, il dolore fisico autoinflitto viene tollerato in quanto riduce la pressione emozionale».  Spesso i comportamenti sono reiterati, fino a diventare una dipendenza che, se non trattata, può trascinarsi fino all’età adulta.
«L’approccio più comune è quello cognitivo-comportamentale – spiega Mencacci – che mira soprattutto alla riduzione dei sintomi autolesivi. Ma è ovviamente importante formulare una diagnosi complessiva, dato che spesso il fenomeno è connesso a problematiche come depressione, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della personalità… Con l’ausilio delle tecniche cognitivo-comportamentali, oltre a individuare gli aspetti irrazionali e i pensieri negativi che precedono gli atti autolesivi, si aiutano i giovani a trovare modalità più adeguate per affrontare gli stress collegati. Può anche aiutare la partecipazione a gruppi di skill training, con cui si educano questi soggetti a coltivare le emozioni positive, spesso sopraffatte da quelle negative che innescano la spinta autolesionistica».