Quanti richiami ci vogliono contro le fake news?

(da Univadis)   Per parlare di disinformazione già si usavano da prima della pandemia metafore tratte dalla medicina e dall’infettivologia: si diceva che le fake-news si diffondono in maniera “virale”, che certe categorie di persone, per esempio appartenenti a determinati partiti politici o gruppi religiosi, sono particolarmente “suscettibili”, che per evitare di cadere nelle bufale la società deve produrre sani “anticorpi” e che per “prevenire” occorre insegnare spirito critico, metodo scientifico, nozioni di base per la comprensione del mondo e in particolare della ricerca e della medicina.

A questo vocabolario si potrebbe aggiungere un elemento nuovo: la necessità, anche in questo campo, di sottoporre le persone a dei “richiami”, perché la capacità “neutralizzante” dei fatti nei confronti delle false credenze svanisce nel tempo, come il titolo anticorpale che ci protegge dall’infezione. A dimostrarlo è stato Brendan Nyhan, vecchia conoscenza per chi studia i temi della comunicazione della salute, e in particolare dei vaccini. Il ricercatore aveva infatti già pubblicato nel 2014 un poi citatissimo studio su Pediatrics, in cui dimostrava come nessuno dei quattro diversi approcci comunicativi testati riusciva a vincere la resistenza contro i vaccini di genitori esitanti. Anzi, in certi casi, dimostrare con i fatti agli interlocutori che avevano torto rinforzava la loro riluttanza e ostilità. Era il cosiddetto “effetto backfire”.

Da allora Nyhan con i suoi collaboratori hanno continuato a studiare il fenomeno, allargando lo sguardo ai social media e approfondendo le modalità di diffusione e contrasto alla disinformazione in medicina come modello da applicare poi alla politica, il loro principale campo di interesse. In un lavoro appena pubblicato su ‘Nature Human Behaviour’ il politologo aggiorna la domanda che si era posto quasi vent’anni fa: le spiegazioni “fattuali” riescono a contrastare le percezioni errate su covid-19?

Diverse ricerche successive al famoso studio del 2014 avevano messo in dubbio le sue conclusioni: in una metanalisi del 2017, di primo acchito, i fatti sembravano poter avere la meglio sulle credenze errate e anche altri lavori più recenti , delineavano in che condizioni il debunking potesse in realtà essere utile  e di come ciò fosse possibile anche sui social media.

Ma poi lo studio applica all’infodemia di notizie false la stessa domanda che gli immunologi si fanno riguardo al vaccino: quanto dura l’”immunità”? Una persona che ha capito e si è convinta di aver sbagliato a credere a una bufala conserverà nel tempo il suo nuovo punto di vista o viceversa potrà ricadere nella trappola iniziale?

Il risultato, purtroppo, è a metà e metà. Da un lato, il lavoro più recente, condotto durante i mesi più caldi della pandemia in Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti, mostra che la popolazione di tutti e tre questi Paesi molto diversi per livello di polarizzazione e conflittualità sulla pandemia reagisce positivamente al fact-checking. Non appena i gruppi più a rischio di disinformazione venivano messi a conoscenza dei fatti che smentivano l’origine ai fini di guerra biologica di SARS-CoV-2 o il ruolo terapeutico dell’idrossiclorochina, per fare due esempi, si otteneva un sostanziale calo del loro livello di adesione a queste teorie. D’altra parte, lo stesso studio mostra quanto questo risultato sia effimero, e sparisca nel giro di poche settimane.

Insomma, anche la memoria dei dati scientifici, come quella del sistema immunitario nei confronti di SARS-CoV-2, tende a calare col tempo. Un gruppo scozzese guidato da Sergio Della Sala aveva già osservato nel 2017 quanto sia labile il tentativo di scalzare la disinformazione dalla memoria. Per farlo occorrono ripetuti richiami, continuando a esporre il pubblico a una corretta informazione. Ma ancora più efficace è il “vaccino”, che previene la formazione di idee distorte. Fornire prontamente ai cittadini una corretta e onesta interpretazione dei fatti, prima che qualcuno vada a raccontare una spiegazione complottista di quel che accade, è il modo migliore per andare a caccia di bufale. La prima versione non si scorda mai.