Chirurgia, negli Usa si apre il dibattito sull’età giusta per smettere di operare

(da Doctor33)    Quando un chirurgo è troppo anziano per operare? È il titolo di un lungo articolo comparso sul New York Times, che propone molte voci e argomenti, a favore o contro una maggiore regolamentazione del periodo di fine carriera di un chirurgo.  Nel 2015, secondo la ‘American Medical Association’, quasi un quarto dei medici praticanti negli Stati Uniti aveva 65 anni o più, e nel 2017 più di 122mila medici in quella fascia di età erano impegnati in prima linea, nel trattamento dei pazienti.  Le capacità fisiche e cognitive diminuiscono con l’età e per un’attività tanto complessa e delicata come la chirurgia, questo potrebbe essere un problema; nell’articolo si suggerisce che un’età obbligatoria di pensionamento potrebbe risolvere la situazione ma priverebbe la popolazione del contributo di professionisti competenti e ancora perfettamente capaci, specie in certe aree rurali poco coperte da servizi adeguati.  «In Italia – ricorda il presidente della Società italiana di chirurgia (Sic) Paolo De Paolis – il pensionamento obbligatorio esiste per i chirurghi che operano nelle strutture pubbliche,  67 anni per gli ospedalieri e 70 anni per gli universitari; non esiste invece un limite alla possibilità di esercitare la professione in strutture private, dove il chirurgo che se la sente può esercitare la professione: ma in questo caso, la scelta di dare fiducia o meno a un professionista anziano è determinata dai pazienti». Gli studi scientifici mostrano che le prestazioni non decadono particolarmente con l’età, «perché l’esperienza matura in modo molto progressivo e finisce per avere un ruolo maggiore rispetto alle abilità psicofisiche»  De Paolis ritiene difficile che si possano trovare parametri in grado di stabilire oggettivamente il decadimento delle prestazioni di un chirurgo sotto una soglia oltre la quale i rischi per i pazienti potrebbero aumentare; «devo dire però che stiamo andando verso un sistema di controllo in cui i risultati delle istituzioni, ma anche del singolo chirurgo, saranno sempre più valutati, oggettivabili e noti; questo metterà il paziente in condizione di maggiore garanzia».   Invece, porre una data limite sembra essere una misura artificiale, dato che le differenze individuali nel deterioramento di alcune capacità sono molto forti. «Il chirurgo svolge sempre il proprio lavoro nell’ambito di sistemi complessi – spiega De Paolis – che, a cominciare dalle direzioni sanitarie, sono in grado di cogliere i cambiamenti nelle prestazioni e, quando è il caso, spostare i chirurghi dalla sala operatoria ad attività di assistenza. Questo avviene in modo piuttosto naturale, anche perché gli stessi professionisti sviluppano un senso di coscienza professionale e di etica che sta alla base del loro lavoro; chi riconosce che la propria capacità in sala operatoria va in qualche modo a scemare, sfrutta le sue conoscenze e la sua esperienza in altri ambiti. Direi che il sistema sostanzialmente funziona e non ci sono criticità particolari».