L’ospedale “Morgagni-Pierantoni” di Forlì compie venti anni: le iniziative del 4 e 5 aprile 2024

(da Ufficio Stampa Auslromagna)La città di Forlì, nel 2004, organizzò tre giorni di festa per salutare il nuovo ospedale “Morgagni – Pierantoni”.

Un evento che coinvolse tutta la cittadinanza ed ebbe il suo culmine nella cerimonia del taglio del nastro, che si svolse sabato 17 gennaio 2004, in presenza di Girolamo Sirchia, ex Ministro della Salute, Vasco Errani, ex Presidente della Regione Emilia Romagna, Giovanni Bissoni, ex Assessore alla Sanità della Regione Emilia Romagna, Massimo Pieratelli, ex Direttore Generale Ausl di Forlì e Franco Rusticali, allora Sindaco di Forlì. Venne allestita una mostra a Palazzo Albertini, dal titolo “I beni della salute.

Il patrimonio dell’Azienda Sanitaria di Forlì” ed organizzati spettacoli, concerti ed una festa “solidale” in Piazza Saffi, dal titolo “Tutti per uno, uno per tutti” , che coinvolse tutte le associazioni, cooperative sociali, organizzazioni non profit, artisti forlivesi e commercianti. I partecipanti alla festa poterono anche assistere, in diretta, alla cerimonia ufficiale di inaugurazione dell’Ospedale, grazie ad un maxi- schermo, installato in un’area della piazza.

“La filosofia dell’ospedale di Forlì è quella dell’ “high care” – affermò il dottor Massimo Pieratelli - dove ciascun paziente è indirizzato verso un percorso unico con riferimenti sanitari certi. Il modello che si vuole realizzare all’interno del nuovo presidio ospedaliero di Forlì punterà ad offrire ai pazienti un’alta intensità assistenziale e tecnologica, posti letto dedicati e percorsi assistenziali definiti. L’organizzazione consentirà un elevato utilizzo di spazi e strutture, ottimizzando flussi e percorsi grazie alla contiguità dei servizi inseriti nei processi di cura.Tutto per offrire ai pazienti risposte appropriate alle singole esigenze di cura".

Per festeggiare l'anniversario, la Direzione generale dell' AUSL Romagna ha organizzato alcune iniziative, aperte alla cittadinanza.

In allegato i programmi dei due eventi: una festa al Naima di Forlì (4 aprile) ed un evento (5 aprile) nel Salone Comunale di Forlì.

Sigarette elettroniche: non così innocue come sembra

(da M.D. Digital)  Il loro utilizzo è infatti legato a una riduzione della funzionalità polmonare e a un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca.  Peggiorano anche la FEV1 e la tolleranza all'esercizio. Secondo i risultati pubblicati su Chest, dopo l'uso per 15 minuti di un sistema elettronico di somministrazione di nicotina (ENDS), la funzione polmonare è diminuita e la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca sono aumentate negli utilizzatori a lungo termine rispetto ai non utilizzatori. "Un episodio di utilizzo di ENDS è associato a un peggioramento acuto degli indici di salute cardiovascolare e polmonare tra gli utenti a lungo termine di questi dispositivi", hanno affermato gli autori.

In uno studio osservazionale, i ricercatori hanno valutato 164 utilizzatori esclusivi di ENDS (età media 27.4 anni; 39% donne; 86% bianchi), 117 utilizzatori esclusivi di sigarette (età media 42.8 anni; 44.4% donne; 55.6% bianchi) e 114 individui che non hanno riferito di fumare o svapare (età media 30.8 anni; 50% donne; 69.3% bianchi) per confrontare le misure di salute cardiovascolare e polmonare tra i gruppi dopo 15 minuti di utilizzo del prodotto. Durante il periodo di utilizzo di 15 minuti, le persone che non fumavano o vaporizzavano riposavano.   In particolare, la durata mediana dell'uso del prodotto era maggiore nella coorte delle sigarette rispetto alla coorte ENDS (21 anni contro 4 anni) e questi individui avevano misurazioni basali della funzione polmonare (FEV1 e flusso medio espiratorio forzato dal 25% al 75% della FVC più scadenti [FEF25-75]).

I ricercatori hanno osservato un numero significativamente più elevato di boccate effettuate durante il periodo di utilizzo di 15 minuti tra gli utilizzatori di sigarette rispetto agli utenti ENDS (mediana, 14 boccate contro 9 boccate; p<0.001).  Tra il gruppo di utilizzatori esclusivi di ENDS e il gruppo di individui che non usavano tabacco o vaporizzatore, tre misurazioni cardiovascolari sono aumentate significativamente dopo l'uso del prodotto per 15 minuti nella coorte ENDS: Pas (differenza media aggiustata 5.6 mmHg rispetto a 2.3 mmHg), Pad (4.2 mmHg rispetto a 2 mmHg) e frequenza cardiaca (4.8 battiti/minuto contro –1.3 battiti/minuto).   I ricercatori hanno notato risultati comparabili e significativi a quelli sopra riportati quando hanno valutato i consumatori di sigarette rispetto a individui che non avevano riferito di fumare o svapare.   Gli individui che utilizzavano ENDS rispetto a quelli che non utilizzavano tabacco o prodotti da vaporizzare avevano anche diametri dell'arteria brachiale significativamente peggiori (–0.011 cm rispetto a –0.006 cm), variabilità della frequenza cardiaca (–7.2 ms vs 3.6 ms) e FEV1 (–4.1 vs –1.1).

Per quanto riguarda queste tre misurazioni tra consumatori di sigarette e non consumatori di tabacco/vaping, i ricercatori hanno osservato valori diminuiti nella coorte di fumatori di sigarette.  Secondo gli autori, sia la dilatazione flusso-mediata dell'arteria brachiale che la variabilità della frequenza cardiaca in posizione eretta non differivano significativamente fra le tre coorti.  Dopo il periodo di utilizzo di 15 minuti, il rapporto FEV1 rispetto a FVC e FEF25-75 sono diminuiti significativamente e in misura maggiore nella coorte ENDS rispetto alla coorte dei non consumatori e alla coorte delle sigarette.  In termini di esercizio, i ricercatori hanno osservato prestazioni ridotte tra gli utilizzatori di ENDS rispetto ai non utilizzatori, con equivalenti metabolici significativamente ridotti (METS: differenza media aggiustata 1.28 MET) e recupero della frequenza cardiaca in 60 secondi (differenza media aggiustata 2.9 battiti/minuto) riscontrata in questa coorte.  "Gli utilizzatori di ENDS hanno mostrato un peggioramento acuto della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca e della variabilità della frequenza cardiaca, nonché vasocostrizione, ridotta tolleranza all'esercizio fisico e aumento dell'ostruzione del flusso aereo dopo l'utilizzo di ENDS rispetto ai partecipanti di controllo", hanno scritto gli autori. “Questi risultati sollevano preoccupazioni sui potenziali danni degli ENDS contemporanei”.(Tattersall MT, et al. Cardiovascular and Pulmonary Responses to Acute Use of Electronic Nicotine Delivery Systems and Combustible Cigarettes in Long-Term Users. Chest 2023. DOI:https://doi.org/10.1016/j.chest.2023.03.047

DDL Semplificazioni apre alla possibilità di stilare certificazioni in regime di telemedicina

Il 25 Marzo u.s. il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera a un nuovo DDL Semplificazioni, in cui si legge testualmente:

Semplificazioni in materia di certificazione medica in telemedicina

Con Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta del Ministero della Salute, dovranno essere definiti i casi e le modalità di ricorso alla telecertificazione.

E' indubbiamente una novità interessante che agevolerebbe il lavoro di tutti i medici territoriali, ma prima occorre una definizione chiara delle regole e delle occasioni nelle quali questo sarà autorizzato ed non comporterà reato penale, amministrativo o deontologico

Si procede d’ufficio anche per le lesioni al personale sanitario

(da DottNet)   "Dal 26 Marzo è possibile procedere d’ufficio anche nel caso di lesioni personali ai professionisti sanitari sia che si tratti di lesioni lievi sia gravi o gravissime, indipendentemente quindi dalla volontà della vittima di sporgere querela. È un ulteriore passo in avanti a tutela dei colleghi vittime di aggressioni e violenze nell’esercizio delle loro funzioni. Ed è anche la dimostrazione che la nostra pressante azione inizia a dare i frutti concreti". È questo il commento del Segretario Nazionale Anaao Assomed, Pierino Di Silverio a seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo 19 marzo 2024, n. 31 che modifica il codice penale in tema di procedibilità d’Ufficio per il reato di lesioni personali e di procedibilità a querela del reato di danneggiamento.

"L’intervento si è reso necessario – spiega Di Silverio - per coordinare le modifiche già introdotte al regime di procedibilità del delitto di lesioni nel 2022 con la riforma del processo penale, alla sopravvenuta modifica, voluta da Anaao, e apportata dal legislatore al Codice penale, dal cosiddetto decreto bollette". "Già con il decreto bollette del 2023, infatti, - ricorda Di Silverio - il legislatore, recependo una richiesta dell’Anaao, era intervenuto a rafforzare il sistema normativo penale a tutela del personale sanitario nell'esercizio delle proprie funzioni e attività, in considerazione degli episodi di violenza più volte verificatisi nelle strutture sanitarie, con l’introduzione di un inasprimento delle sanzioni con riguardo alle lesioni semplici per le quali si prevede oggi la pena della reclusione da due a cinque anni". "Questa novità – conclude Di Silverio – rappresenta un ulteriore passo in avanti a difesa dei colleghi vittime di aggressioni e violenza nell’esercizio delle loro funzioni. Ora chiediamo immediate misure organizzative per completare l’azione di tutela".

Anche un’attività fisica minima può ridurre il rischio di ictus

(da DottNet)   Anche livelli minimi di attività fisica possono ridurre il rischio di ictus: è il risultato principale dello studio condotto dai neurologi del dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologiche dell'Università dell'Aquila, pubblicato online sul 'Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry'.    

Dallo studio emerge che gli effetti di riduzione del rischio di ictus cerebrale associati all'attività fisica sono indipendenti dall'età e dal sesso, il che significa che tutti dovrebbero essere incoraggiati a svolgere qualunque tipo di attività fisica nel loro tempo libero. Mentre le linee guida internazionali raccomandano 150 minuti o più a settimana di attività fisica di intensità moderata o 75 minuti o più di attività ad intensità vigorosa per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e cerebrovascolari, non molti adulti riescono a raggiungere questo obiettivo, affermano i ricercatori.   Eppure, anche le persone che portano avanti livelli di attività fisica inferiori, purché non siano del tutto sedentarie, hanno un ridotto rischio di ictus rispetto ai loro coetanei sedentari: per scoprire se livelli più bassi di attività fisica possano comunque avere un effetto protettivo contro l'ictus cerebrale, gli autori, cercando dati nei database internazionali, hanno riunito i risultati di 15 grandi studi osservazionali effettuati su un totale di 752.

052 adulti, la cui salute è stata monitorata per una media di 10,5 anni.   L'analisi dei dati aggregati ha mostrato che, rispetto all'assenza di attività fisica, la quantità "ideale" più alta riduce il rischio di ictus del 29%, ma che alcune attività "al di sotto del target" consigliato dalle raccomandazioni internazionali riducono comunque il rischio di ictus del 18%.    "Gli autori - precisa una nota Univaq - riconoscono diversi limiti ai loro risultati, tra cui la variabilità nelle definizioni dei livelli di attività fisica tra i diversi studi e il fatto che l'attività fisica era riportata in modo soggettivo, tramite questionari, dai soggetti inclusi". Tuttavia, gli autori dello studio concludono che l'attività fisica ricreativa, anche in piccole quantità, potrebbe aiutare a scongiurare l'ictus nel lungo termine.

Scoperti i meccanismi molecolari del digiuno

(da AGI)  Il corpo subisce cambiamenti significativi e sistematici nei livelli di proteine associate a diversi organi, quando viene esposto a periodi prolungati senza cibo. A riportare benefici e rischi dell'assenza prolungata di calorie uno studio, pubblicato sulla rivista 'Nature Metabolism', condotto dagli scienziati del Precision Healthcare University Research Institute (Phuri) della Queen Mary University di Londra e della Norwegian School of Sports Sciences.

Il team, guidato da Claudia Langenberg, ha valutato le conseguenze della carenza di cibo in 12 volontari sani, che sono stati attentamente monitorati per sette giorni, durante i quali hanno assunto solo acqua. Questi risultati, commentano gli esperti, dimostrano che tre giorni di digiuno sono sufficienti a provocare cambiamenti significativi per la salute. Nel corso dei millenni, osservano gli autori, gli esseri umani hanno sviluppato la capacità di sopravvivere senza cibo per periodi di tempo prolungati.

I medici liberi professionisti chiedono uguale accesso a certificazioni e piani terapeutici

(da DottNet)  I medici liberi professionisti attualmente non hanno possibilità di redigere certificazioni per patologia ai fini di esenzione , né prescrivere farmaci dispensati dal SSN. Tale problematica è da sempre vissuta dalla categoria come una grave discriminazione, che lede la dignità del medico e i diritti dei pazienti, si legge in una nota del Direttivo di AMOlp.    "Partendo dal presupposto che si tratta di professionisti con pari competenze, uguali titoli di laurea e specializzazione, tale discriminazione può generare il dubbio legittimo di un diverso valore tra chi opera nel pubblico e chi opera nel privato, e al tempo stesso un senso di frustrazione nel libero professionista che non ha gli strumenti necessari per una gestione completa del paziente Ma l'aspetto socialmente più rilevante , per cui è sollecitata una soluzione a questo problema, è la volontà di contribuire a decongestionare il SSN lavorando in sinergia con i colleghi del pubblico in favore di tutti i pazienti. Consentire ai liberi professionisti di prescrivere e certificare ciò che adesso è loro precluso, contribuirebbe infatti a ridurre il numero di prestazioni richieste a tale scopo nel pubblico , alleggerendo le lunghissime liste di attesa", riporta il comunicato.
"Già oggi, peraltro, i liberi professionisti hanno accesso a piattaforme del pubblico. Infatti attraverso il sistema tessera sanitaria possono redigere certificati per malattia fino a dieci giorni e produrre ricette dematerializzate. La richiesta della categoria è che si affronti al più presto il problema , e soprattutto che non si gettino più ombre sulla sanità privata che purtroppo ancora oggi risente di antichi e inaccettabili pregiudizi , nella piena consapevolezza di agire in scienza e coscienza, senza alcuna sorta di condizionamento. I liberi professionisti chiedono alle Istituzioni politiche e mediche di poter accedere come i loro colleghi del pubblico alle certificazioni per patologia e ai piani terapeutici, rivendicando pari dignità a parità di competenze, nel prioritario interesse del paziente che resta il fulcro centrale dell’ interesse di ogni medico e a tutela della propria professionalità", conclude il testo firmato dal direttivo di AMOlp.

Intelligenza artificiale, utile in medicina per 68% di italiani

(da Doctor33)   Il 68% degli italiani ritiene che la trasformazione digitale e l'Ia possano essere di aiuto all'assistenza sanitaria del nostro Paese; tuttavia, il 32% esprime preoccupazione, soprattutto per l’assenza di contatto umano e la difficoltà delle persone ad avere accesso agli strumenti digitali. Sono alcuni dei dati emersi dalla ricerca Ipsos 'Priorità e aspettative degli italiani per un nuovo Ssn', presentata in occasione della sesta edizione di 'Inventing for Life Health Summit', evento organizzato a Roma da Msd Italia. "La trasformazione digitale e l'intelligenza artificiale sono viste con grande attenzione da parte dei cittadini, ma ci sono elementi di preoccupazione - ha affermato Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos - Preoccupa l'idea che venga meno il contatto umano. Quindi sì alla telemedicina, ma non bisogna impoverire la relazione". In questo, ha aggiunto, "il medico di medicina generale ha un ruolo fondamentale anche nel contrastare le fake news. Il cittadino è vulnerabile verso le informazioni non veritiere. La prossimità del medico e la sua autorevolezza possono essere un antidoto alla diffusione di false notizie".

Secondo l'indagine, per il 68% degli italiani la transizione digitale può ridurre il carico di lavoro del personale sanitari, identificare precocemente fattori di rischio, aiutare nella diagnosi, personalizzare i trattamenti. Mentre per il 32% del campione degli intervistati esprime preoccupazione, soprattutto per l'assenza di contatto umano e la difficoltà di accesso agli strumenti digitali. "Gli ospedali sono stati e sono il motore dell'innovazione, dell'eccellenza del servizio sanitario nazionale". Nelle strutture italiane "l'utilizzo dell’intelligenza artificiale è già realtà", ora "bisogna formare medici e personale sanitario". Lo ha detto Giovanni Migliore, presidente della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), a margine della presentazione di 'Open meeting. Grandi ospedali''. "Adesso gli ospedali sono di fronte a una nuova sfida - dice Migliore - che è quella dettata dalla nuova riforma della sanità territoriale, che non può fare a meno della capacità, della competenza e soprattutto della consuetudine delle strutture ospedaliere a realizzare soluzioni flessibili nell'interesse del paziente. Attraverso gli strumenti messi a disposizione dalle nuove tecnologie di comunicazione applicate in sanità, gli ospedali potranno assicurare quella continuità assistenziale che in passato è stato più difficile realizzare, proprio per la difficoltà di mettere in relazione la medicina e gli specialisti del territorio con chi all'interno dei grandi ospedali offriva le cure di alta specializzazione". "Con l'intelligenza artificiale - continua Migliore - abbiamo già consuetudine perché nei nostri ospedali di fatto è presente all'interno di tutte le tecnologie, per esempio, della terapia intensiva o della diagnostica per immagini. Oggi abbiamo l’opportunità di avere un ulteriore sviluppo di questa modalità operativa, che sfrutta le grandi capacità di calcolo. Può supportare i professionisti nei compiti di routine: attività di monitoraggio o la disamina di base di informazioni sanitarie che possono essere assolte più velocemente attraverso questi software".

“L'intelligenza artificiale non è una scelta, ma una realtà" e per questo "dobbiamo governarla": lo ha detto il ministro dell'Università e la Ricerca Anna Maria Bernini, nel convegno su 'Intelligenza naturale e intelligenza artificiale come elementi di competitività del Paese', organizzato presso la Camera da Valentina Aprea (Fi). "Non abbiamo paura dell'Intelligenza artificiale perché a monte e a valle dell'IA c'è sempre l'intelligenza umana", ha detto ancora il ministro, confermando l'intenzione di organizzare nella sede del supercomputer Leonardo il G7 sulla Scienza e la Tecnologia durante il semestre di presidenza italiana. "L'intelligenza artificiale - ha proseguito - è importante in tutti i nuovi contesti della ricerca, dalla genomica all'agritech" ed è "un moltiplicatore di intelligenza umana.
Sulla stessa linea Alessandro Colucci, segretario di presidenza della Camera, che aprendo i lavori ha osservato che "è necessario utilizzare la capacità critica dell'intelligenza naturale nell'uso dell'intelligenza artificiale, che offre vantaggi e sfide etiche", ha detto riferendosi in particolare ai temi della privacy, della trasparenza, dell'equità e della responsabilità. Per questo motivo, ha aggiunto, si auspica una "trasversalità del Palamento per normare con strumenti continuativi nel tempo".

Sonno: quasi due italiani su cinque dormono male

(da DottNet)  Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza di quanto dormire bene sia essenziale per il benessere psico-fisico, con numerosi studi che hanno individuato la carenza di sonno come un fattore di rischio per molte patologie. Risulta dunque particolarmente preoccupante quanto rivelato dall’ultimo sondaggio dell’Osservatorio Sanità di UniSalute: quasi due italiani su cinque dichiarano di riposare male, e molti di coloro che soffrono di disturbi del sonno rinunciano a cercare dei rimedi per dormire meglio.  

Secondo la ricerca, condotta insieme a Nomisma, ben il 38% degli italiani si dice "poco o per niente soddisfatto" della qualità del proprio sonno, con appena il 16% che dichiara di essere "molto" o "estremamente soddisfatto" del proprio tempo passato tra le braccia di Morfeo. I risvegli notturni risultano essere il disturbo del sonno più diffuso, con il 36% del campione che ne soffre spesso o ogni giorno. Altri problemi comuni sono il russare (31%), la stanchezza cronica (25%), l’avere un sonno agitato (24%) e la difficoltà ad addormentarsi (23%). La maggioranza (58%) di chi soffre di questi disturbi, inoltre, rivela di non aver adottato alcun rimedio per le proprie problematiche notturne. Il restante 42% si è rivolto principalmente al medico di base (19%) o a soluzioni fai da te (12%), e in misura minore cercando rimedi in farmacia (6%) o consultando uno specialista del sonno (4%).

Secondo gli italiani lo stress è la principale causa della scarsa qualità del loro sonno, con il 69% che lo indica come un fattore determinante. Uno su quattro (26%) dice di avere orari troppo irregolari, e una percentuale simile punta il dito contro l’eccessiva esposizione agli schermi durante la giornata (24%).  Tra le buone pratiche per dormire meglio, quella più condivisa è andare dormire e svegliarsi sempre alla stessa ora, con uno su tre che cerca di avere questa regolarità (34%). Altre abitudini considerate favorevoli sono l’evitare di consumare cibi pesanti la sera (30%) e il limitare alcol e caffeina prima di andare a dormire (21%). Uno su tre (32%), inoltre, utilizza almeno saltuariamente app e dispositivi per il monitoraggio del sonno.

Andando infine a indagare più nel dettaglio le abitudini del campione interrogato, UniSalute ha scoperto che gli italiani sono piuttosto mattinieri, con il 52% che dichiara di svegliarsi prima delle 7. Per quanto riguarda l’orario di addormentamento, la fascia oraria più popolare è quella tra le 23 e la mezzanotte, quando va a dormire più di un italiano su tre (36%). In media le ore dormite sono pari a 6,8 a notte, dunque meno delle sette o otto ore ritenute ideali per la maggior parte delle persone.

Covid-19 ha un impatto durevole sulla funzione cognitiva. Ecco quali sono le conseguenze

(da Doctor33)     Secondo uno studio appena pubblicato sul 'New England Journal of Medicine' l’infezione da Covid-19 potrebbe lasciare conseguenze durevoli e significative sulle funzioni cognitive. L’ampio studio ha valutato gli effetti del Covid-19 sulla cognizione e la memoria, focalizzandosi sulle differenze osservabili nei pazienti post-infezione.
La ricerca, diretta da Adam Hampshire del dipartimento di Salute Pubblica dell'Imperial College di Londra, ha coinvolto 800.000 adulti in Inghilterra, invitati a svolgere valutazioni cognitive online, con l'obiettivo di quantificare eventuali deficit cognitivi globali e specifici legati alla memoria e all'esecuzione. Tra i 141.583 partecipanti che hanno avviato la valutazione, 112.964 l'hanno completata. L'analisi ha evidenziato deficit cognitivi globali lievi ma misurabili in individui con sintomi di Covid-19 risolti ma durati per almeno 12 settimane, paragonabili a quelli con sintomi risolti e di breve durata (meno di 4 settimane), ma significativamente maggiori in soggetti con sintomi persistenti e non risolti.

"In questo studio osservazionale, abbiamo riscontrato deficit cognitivi misurabili oggettivamente che possono persistere per un anno o più dopo il Covid-19” sottolineano Hampshire e colleghi. “Abbiamo anche scoperto che i partecipanti con sintomi persistenti risolti avevano piccoli deficit nei punteggi cognitivi, rispetto al gruppo senza Covid-19, che erano simili a quelli nei partecipanti con malattia di breve durata” aggiungono. I periodi iniziali della pandemia, una maggiore durata della malattia e il ricovero ospedaliero mostravano le associazioni più forti con i deficit cognitivi globali. “Le implicazioni della persistenza a lungo termine dei deficit cognitivi e la loro rilevanza clinica rimangono poco chiare e richiedono un monitoraggio continuo” concludono gli autori.

(NEJM 2024. Doi: 10.1056/NEJMoa2311330  http://doi.org/10.1056/NEJMoa2311330

Troppe proteine fanno male alle arterie

(da Univadis)    Da qualche tempo a questa parte, a giudicare dalla sempre maggior offerta di prodotti “high protein” e di integratori, sembra che consumare elevate quantità di proteine sia un must per essere in forma. Ma è veramente così? Superare le quantità giornaliere raccomandate dagli esperti può in realtà essere dannoso, come suggerisce uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Metabolism.  (https://www.nature.com/articles/s42255-024-00984-2)   Alcuni ricercatori dell’Università di Pittsburgh hanno infatti osservato che una dieta troppo ricca di proteine fa aumentare i livelli di leucina circolante che, agendo sui monociti/macrofagi, esercita un effetto pro-aterogeno.

Proteine e aterosclerosi 

L’associazione tra diete ad alto contenuto di proteine e aterosclerosi è già stata ampiamente dimostrata in modelli animali. Una ricerca precedente dello stesso gruppo di ricerca aveva mostrato che le diete high-protein promuovono l’aterosclerosi in topi geneticamente predisposti tramite l’attivazione di una particolare via di segnalazione cellulare, la via mTOR (mammalian target of rapamycin). L’assunzione di elevate quantità di proteine attiva la proteinchinasi mTOR nei monociti/macrofagi e inibisce il processo di autofagia, favorendo la formazione delle placche aterosclerotiche. I ricercatori statunitensi hanno ipotizzato che l’attivazione di mTOR potesse dipendere da specifici amminoacidi “patogenici”.

Il pathway “incriminato” 

Sono stati condotti due studi clinici che hanno coinvolto in tutto 23 adulti di entrambi i sessi. Ai partecipanti, in due diverse occasioni, è stato somministrato un pasto liquido ad alto o basso contenuto di proteine (studio 1) o un pasto standard in cui le proteine rappresentavano il 15% o il 22% dell’energia assunta (studio 2). Dopo i pasti sono stati effettuati dei prelievi di sangue per dosare gli amminoacidi plasmatici e per isolare i monociti, misurando poi l’attivazione di mTOR e l’attività autofagica. I ricercatori hanno stabilito che l’attivatore chiave di mTOR nei monociti/macrofagi era la leucina e che la via si segnalazione veniva attivata solo quando il consumo di proteine e i livelli di leucina circolante superavano una certa soglia.   Per verificare questa ipotesi sono stati condotti degli esperimenti in vivo, alimentando i topi con diete che fornivano quantità diverse di proteine, in alcuni casi addizionate di leucina. Gli esperimenti hanno confermato il ruolo delle proteine nell’attivazione di mTOR e che la leucina è necessaria e sufficiente per mediare gli effetti dannosi dell’elevato consumo proteico sull’aterogenesi. Anche in questo caso è emerso un effetto soglia. 

Quante proteine bisognerebbe consumare 

“I livelli di assunzione di proteine raccomandati variano in funzione di diversi parametri (genere ed età) e si riferiscono al peso corporeo" spiega Erna C. Lorenzini, professoressa aggregata di Scienze Tecniche dietetiche applicate presso l’Università degli Studi di Milano. "In generale si raccomanda 0.8-1 g/kg di peso/giorno, per gli adulti sani. Richiedono un maggior apporto proteico (fino a 1,5-2 g/kg peso/giorno) condizioni di malnutrizione con sarcopenia o condizioni in cui il fabbisogno energetico è molto elevato, come alcune patologie cronico degenerative (es. BPCO, cachessia). L’insufficienza renale richiede, invece, una restrizione proteica in relazione al suo stadio”.   “Per quanto riguarda la leucina , un amminoacido essenziale, il fabbisogno per gli adulti è di 14 mg/kg di peso corporeo – prosegue nella spiegazione – circa 1 grammo al giorno per un individuo di 70 kg”. Sono ricchi di leucina (e degli altri amminoacidi ramificati) sia alimenti di origine animale, come carne, pesce, uova, latticini, sia alimenti di origine vegetale, come i legumi e la soia.   Gli aminoacidi ramificati sono tra gli integratori alimentari più utilizzati dagli sportivi, sebbene solo in casi specifici siano utili e necessari. “Una dieta varia e corrispondente ai fabbisogni garantisce le proteine e tutti gli amminoacidi necessari, soprattutto quelli essenziali, compresa la leucina, anche per gli sportivi non agonisti" avverte Lorenzini. "Integrazioni inopportune, sia di proteine sia di amminoacidi, possono causare intake eccessivi”.

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