Medicina estetica dall’odontoiatra: ecco limiti e ambiti

(da DottNet)  Sì alle "terapie con finalità estetica, da parte dell' odontoiatra, solo dove queste siano destinate alla terapia delle malattie e anomalie congenite e acquisite dei denti, della bocca, delle mascelle e dei relativi tessuti". Così il ministero della Salute ha risposto ai quesiti che la direzione generale delle Professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale (Dgprof), aveva posto al Consiglio superiore della sanità, riportando alcune osservazioni relative alla liceità delle terapie estetiche del viso da parte dei laureati in Odontoiatria e protesi dentale poste dall' Associazione italiana di medicina estetica odontoiatrica (Simeo), dall' associazione Perioral e Oral Integrated Esthetic Sciences International Society (Poiesis) e dall' Associazione nazionale dentisti italiani (Andi).    Per 'relativi tessuti', spiega l' Andi, "si intendono le zone perilabiali e dei mascellari inferiore e superiore, fino all' area sottozigomatica - e solo ove contemplate in un protocollo di cura odontoiatrica ampio e completo proposto al paziente, tale da rendere la cura estetica 'correlata', e non esclusiva, all' intero iter terapeutico odontoiatrico proposto al paziente medesimo". Il documento, fa sapere l' Andi, esplicita "che la professione di odontoiatra e professione specifica da quella di medico, specializzato o no in odontostomatologia; che la professione di odontoiatra si basa sulla formazione odontoiatrica, differente dalla formazione prevista per il laureato in medicina e chirurgia. Le terapie attuate non potranno, tuttavia, essere eseguite con l' impiego di dispositivi medici e farmaci immessi in commercio per finalità terapeutiche diverse dalla cura di zone anatomiche che sfuggono alle previsioni dell' art.2 della legge 409/85".  Al termine il documento auspica "che il percorso formativo in odontoiatria preveda e conferisca le competenze necessarie per tutte le attività di prevenzione, di diagnosi e di trattamento, estetiche e funzionali, relative ad anomalie e malattie dei denti, della bocca, delle mascelle e dei tessuti attigui, vale a dire la zona perilabiale e dei mascellari superiore e inferiore fino all' area sottozigomatica". Simeo, Poiesis e Andi, attraverso i commenti dei rispettivi presidenti si dichiarano moderatamente soddisfatti, sottolineando come il documento rappresenti sicuramente un passo avanti, ma sottolineano tutti che la strada da percorrere sia ancora molta. Per il presidente Andi Carlo Ghirlanda, "il parere del Css conferma l' estensione dell' area di nostra competenza di intervento rispetto a quanto stabilito in precedenza e il fatto che una volta che le Università avranno introdotto la formazione in 'estetica dei tessuti relativi alle aree di competenza odontoiatrica' nel corso di laurea in Odontoiatria, il limite funzionale e quello sui vincoli sul materiale da usare e sulla stretta correlazione alla terapia odontoiatrica saranno superati".   "Soddisfazione, dunque, rispetto alle determinazioni del passato ma, conclude Ghirlanda - con la consapevolezza di dovere ancora continuare il percorso nella affermazione delle prerogative delle competenze dell' Odontoiatra in medicina estetica del viso poiché il parziale riconoscimento non è ancora esaustivo". "Ci auguriamo, che dopo questo pronunciamento - commenta Alberto Massirone, presidente del Collegio italiano delle società scientifiche di Medicina Estetica, che era stata audita dal Css a novembre scorso - vi sia una reale sinergia tra le categorie professionali di medici estetici ed odontoiatri, prevedendo la collaborazione dei medici estetici per l' esecuzione delle terapie di medicina estetica di loro assoluta e innegabile competenza che, con i trattamenti di riabilitazione odontoiatrici, possono permettere di offrire ai nostri pazienti un ottimale risultato funzionale ed estetico. Sinergia imprescindibile per la sicurezza del paziente e per offrire un programma terapeutico completo di gestione medico estetica del volto che, secondo la buona pratica clinica della nostra disciplina, deve essere considerato nella sua globalità".

Essere sposati riduce il rischio di demenza

(da AGI)  Il matrimonio fa bene al cervello. Uno studio della Michigan State University, pubblicato sulla rivista 'The Journals of Gerontology: Series B', ha scoperto che le persone sposate hanno meno probabilità di soffrire di demenza quando invecchiano. Al contrario, le persone divorziate, specialmente gli uomini, hanno circa il doppio delle probabilità rispetto alle persone sposate di sviluppare la demenza.  Per arrivare a questi risultati i ricercatori hanno coinvolto sia persone sposate, che celibi, separate, divorziate, conviventi e vedove, per un totale di oltre duemila soggetti di età superiore ai 52 anni d'età. Tra questi, i divorziati avevano il più alto rischio di demenza.     "Questa ricerca è importante perché il numero di adulti non sposati negli Stati Uniti continua a crescere, poiché le persone vivono più a lungo e le loro storie coniugali diventano più complesse", ha detto Hui Liu, che ha coordinato lo studio. "Lo stato civile è un fattore di rischio/protezione sociale importante, ma trascurato per la demenza", aggiunge.  I ricercatori hanno anche scoperto che le diverse risorse economiche spiegano solo in parte il rischio di demenza più elevato tra gli intervistati divorziati, vedovi e non sposati, ma non sono stati in grado di spiegare il perché sembrerebbe esserci un rischio maggiore nei conviventi.   Inoltre, fattori legati alla salute, come cattive abitudini e condizioni croniche, hanno leggermente influenzato il rischio tra divorziati e sposati, ma non sembrano influenzare altri stati coniugali. "Questi risultati saranno utili per i responsabili delle politiche sanitarie e i professionisti che cercano di identificare meglio le popolazioni vulnerabili e di progettare strategie di intervento efficaci per ridurre il rischio di demenza", conclude Liu.

Polizze assicurative, si cambia. Le nuove regole

(da DottNet)  Stanno per arrivare nuove polizze assicurative dei medici che dovranno avere caratteristiche ben precise per poter essere valide. Lo prevede lo schema di decreto del Ministero dello sviluppo economicp che, in attuazione della legge Gelli, determina i requisiti minimi delle polizze assicurative per i sanitari e che, se dovesse essere approvato, porterà delle importanti novità in materia. Tra di queste, merita una particolare menzione la nuova regolamentazione dell'efficacia temporale della garanzia assicurativa.   Infatti, lo schema di decreto prevede un periodo di ultrattività obbligatoria della copertura assicurativa del medico per tutte le richieste di risarcimento che sono presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi alla cessazione dell'attività e che sono riferite a fatti generatori di responsabilità che si sono verificati nel periodo di efficacia della polizza. Come spiega Studio Cataldi, a garanzia dell'effettività di tale ultrattività, la norma prevede anche che la stessa è estesa agli eredi del sanitario e che non è possibile assoggettarla a clausola di disdetta.   Sempre con riferimento all'efficacia temporale della garanzia assicurativa, lo schema di decreto precisa che questa va prestata nella forma claims made e che deve operare per le richieste di risarcimento che sono presentate per la prima volta durante il periodo di vigenza della polizza e che si riferiscono a fatti verificatisi in tale periodo e nei dieci anni precedenti la stipula del contratto assicurativo. In ogni caso, l'assicurato è gravato dell'obbligo di dare avviso all'assicuratore di qualsivoglia sinistro gli sia stato denunciato nel termine massimo di 30 giorni da quello in cui è pervenuta la richiesta o l'assicurato ne abbia avuto conoscenza. L'avviso, tuttavia, non va dato se, nel predetto termine, l'assicuratore interviene alle operazioni di salvataggio o di constatazione del sinistro.

La coppetta mestruale valida alternativa agli assorbenti per molte donne.

(da Doctor33)   Secondo una metanalisi pubblicata su 'Lancet Public Health', le coppette mestruali possono costituire un'alternativa sicura ed efficace ai tamponi e agli assorbenti. «Le ragazze e le donne hanno bisogno di prodotti efficaci, sicuri e convenienti da usare nel periodo mestruale. I prodotti monouso vengono regolarmente selezionati dalle agenzie governative per le situazioni povere di risorse, e la coppetta mestruale è un'alternativa meno conosciuta. Abbiamo voluto valutare i dati riferiti da studi internazionali sulle perdite, l'accettabilità e la sicurezza della coppetta mestruale e anche la disponibilità internazionale di questo dispositivo» afferma Anna Maria van Eijk, della Liverpool School of Tropical Medicine, nel Regno Unito, prima autrice del lavoro. Per raggiungere il loro obiettivo, i ricercatori hanno esaminato 43 studi qualitativi e quantitativi che hanno coinvolto un totale di 3.300 donne che hanno usato le coppette mestruali e hanno riferito le loro impressioni a riguardo. Di questi studi, 15 hanno riguardato paesi a basso e medio reddito. In quattro studi i tassi di perdite con coppette mestruali sono risultati simili o inferiori rispetto ad altri prodotti per l'igiene mestruale, e anche i tassi di infezione sono risultati inferiori o comparabili. In tutti gli studi qualitativi l'uso della coppetta mestruale ha richiesto una fase di familiarizzazione durata diversi cicli e il supporto di altre donne utilizzatrici ha migliorato l'accettazione. Il 73% delle partecipanti a 13 studi, comunque, ha dichiarato di voler continuare a utilizzare il dispositivo al termine del periodo di valutazione. Gli eventi avversi hanno incluso cinque casi di sindrome da shock tossico, difficoltà per la rimozione del dispositivo che ha richiesto assistenza medica e dislocazione di dispositivi intrauterini (IUD). «La nostra revisione indica che le coppette mestruali sono un'opzione sicura per la gestione del flusso mestruale e che sono disponibili in molte parti del mondo. Servono comunque ulteriori studi di buona qualità sull'effetto ambientale e sul rapporto costo-beneficio. Le donne con IUD, tuttavia, potrebbero dover considerare un'opzione alternativa per la pianificazione familiare o per la gestione del flusso mestruale» concludono gli autori. (Lancet Public Health 2019. Doi: 10.1016/S2468-2667(19)30111-2   http://dx.doi.org/10.1016/S2468-2667(19)30111-2)

La parodontite potrebbe accelerare l’invecchiamento del cervello

(da DottNet)    La parodontite, malattia gengivale che può portare anche a perdita di denti, potrebbe accelerare il naturale invecchiamento del cervello. Lo suggerisce uno studio su migliaia di individui di 20-59 anni pubblicato sulla rivista Clinical Periodontology e basato sull'analisi del database USA "National Health and Nutrition Examination Survey" (NHANES) e condotto presso il National Defence Medical Center di Taipei a Taiwan.  La parodontite è stata ipotizzata essere uno dei più comuni fattori di rischio per lo sviluppo della demenza. Al fine di verificare la relazione tra questa diffusissima malattia del cavo orale e l'indebolimento delle capacità cognitive, sono stati coinvolti 4.663 partecipanti che sono stati sottoposti a visite dentistiche e test per valutarne le funzioni cognitive.  I partecipanti sono stati suddivisi in gruppi a seconda che soffrissero di parodontite grave, moderata o lieve o che non presentassero affatto la malattia gengivale (sani). I risultati totalizzati ai test cognitivi hanno evidenziato una riduzione delle capacità mentali nei soggetti con parodontite da lieve a grave, rispetto agli individui sani, a parità di fattori influenti come età, livello di istruzione, malattie cardiovascolari e vizio del fumo. "Il nostro studio - scrivono gli autori - mostra che un cattivo stato parodontale è risultato associato a riduzione delle capacità cognitive In un campione significativo di individui". Lo studio è interessante in quanto sono stati considerati individui ancora giovani e quindi è stata valutata la naturale (non patologica) perdita di funzioni cognitive in un gruppo di individui sani (senza demenza), trovando un legame tra salute gengivale e capacità mentali, ha spiegato all'ANSA Cristiano Tomasi, dell'Università di Göteborg e socio della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia (SIdP).

La vaccinazione antiifluenzale è un salvavita per il paziente iperteso

(da M.D.Digital)   La vaccinazione antinfluenzale nei pazienti con ipertensione arteriosa è associata a una riduzione del 18% del rischio di morte durante la stagione influenzale: è quanto sostiene una ricerca presentata al Congresso ESC 2019.   "Alla luce di questi risultati – commenta il primo autore della ricerca Daniel Modin, dell'Università di Copenaghen - sono convinto che tutti i pazienti con ipertensione arteriosa debbano sottoporsi a una vaccinazione antinfluenzale annuale. La vaccinazione è sicura, economica, prontamente disponibile e riduce l'infezione virale. Inoltre, il nostro studio suggerisce che potrebbe anche proteggere da infarti e ictus fatali e dalla morte per altre cause".  I ricercatori del Copenhagen University Hospital Gentofte coordinati da Daniel Modin hanno utilizzato il database del servizio sanitario della Danimarca per identificare 608.452 pazienti con ipertensione e li hanno seguiti durante nove consecutive stagioni influenzali (da 2007 a 2016). È emerso che la vaccinazione antinfluenzale in questa popolazione è associata a una diminuzione del rischio di morte per tutte le cause (18%), una diminuzione del rischio di morte per tutte le cause cardiovascolari (16%) e una riduzione del rischio di morte per infarto e ictus (10%). “Con questi dati, è mia opinione che tutti i pazienti con ipertensione debbano sottoporsi alla vaccinazione influenzale ogni anno - spiega Daniel Modin. - La vaccinazione antinfuenzale è sicura, efficace, poco costosa e accessibile a tutti. Inoltre, come abbiamo dimostrato, può proteggere da attacchi cardiaci e ictus e diminuire il rischio di morte per tutte le altre cause. Ma durante le nove stagioni influenzali che abbiamo monitorato, il tasso di vaccinazione antinfluenzale (almeno in Danimarca) ha oscillato tra 26 e 36%, il che significa che purtroppo tanti pazienti con ipertensione non si vaccinano contro l’influenza. A chi soffre di ipertensione arteriosa suggerisco di valutare con il medico il ricorso alla vaccinazione antinfluenzale”. (Modin D, et al. Influenza Vaccine in Heart Failure. Cumulative Number of Vaccinations, Frequency, Timing, and Survival: A Danish Nationwide Cohort Study. Circulation. 2019; 139: 575–586. https://doi.org/10.1161/CIRCULATIONAHA.118.036788)

Inquinamento: microplastiche anche nelle feci umane

(da Quotidiano Sanità e Reuters Health)  Minuscoli frammenti di plastica penetrano nel corpo tramite l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo. I ricercatori della Medical University di Vienna- guidati da Philipp Schwabl – hanno esaminato i campioni fecali di otto persone provenienti da diverse località geografiche, riscontrando che tutti contenevano piccoli pezzi di plastica.  “Questa piccola serie di casi prospettica ha mostrato la presenza di varie microplastiche nelle feci umane e nessun campione è risultato libero dalle microplastiche”, commenta Philipp Schwabl. “Sono necessari studi più ampi per validare questi risultati”. Lo studio    Per avere un’idea di quanto possa essere diffusa l’ingestione di plastica, Schwabl e colleghi hanno radunato otto volontari disposti a tenere un diario alimentare per una settimana e successivamente a consegnare un campione di feci per l’analisi.I volontari provenivano da tutto il mondo: Giappone, Russia, Olanda, Regno Unito, Italia, Polonia, Finlandia e Austria. I loro diari alimentari hanno mostrato che tutti potevano essere stati esposti alla plastica tramite incarti dei cibi e bottiglie. Nessuno era vegetariano. Sei persone su otto avevano consumato pesce d’oceano. I campioni sono stati testati presso la Environment Agency Austria per verificare la presenza di 10 tipi di plastica con una nuova procedura analitica.  Sono stati individuati nove diversi tipi di plastica, con frammenti della dimensione da 50 a 500 micrometri. Le plastiche più comunemente rilevate sono state polipropilene e polietilene tereftalato. I campioni contenevano in media 20 particelle di microplastica ogni 10 grammi di feci.  Per la maggior parte, le particelle avevano la forma di frammenti e pellicole, raramente apparivano come sfere o fibre.  Non è noto da dove provenissero le microplastiche o come fossero state ingerite. Tuttavia, poiché vi erano diversi tipi di plastica, i ricercatori sospettano che vi fossero diverse fonti, dalla lavorazione e dal confezionamento dei cibi dai crostacei e dal sale marino.

Fatica dopo gli esercizi leggeri è segno di rischio per il cuore

(da DottNet)    Le persone della terza età a cui basta un esercizio fisico molto leggero per avere una sensazione di stanchezza e affaticamento sono maggiormente a rischio di infarto e ictus. A puntare l'attenzione su questo sintomo di possibili futuri problemi cardiovascolari è un articolo apparso sul 'Journal of American Heart Association'. Il team della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, negli Usa, ha esaminato 625 persone con età media di 68 anni, valutando per ciascun partecipante il proprio rischio cardiovascolare. Quindi è stato effettuato un test per misurarne la cosiddetta 'affaticabilità' che consisteva in 'una camminata estremamente lenta', ovvero farli camminare per 5 minuti su un tapis roulant ad un ritmo di circa 2,5 km all'ora.  Dopo aver studiato tutti i dati, i ricercatori hanno scoperto che le persone che avevano anni più alti punteggi di rischio cardiovascolare avevano maggiori probabilità di riferire che questo semplice compito era 'estenuante'. Chi presenta una sensazione di fatica anche dopo esercizi leggeri, e si tratta spesso di persone in sovrappeso, "dovrebbe prestare maggiore attenzione alla salute cardiovascolare e apportare modifiche che potrebbero ridurre il rischio", conclude l'autrice Jennifer Schrack, professore associato di epidemiologia. Tra queste, aggiunge, "seguire una dieta equilibrata e mantenere il giusto livello di attività fisica". Le malattie cardiovascolari, ricorda, sono la principale causa di morte in tutto il mondo e responsabili di circa 18 milioni di decessi ogni anno.

Lo sbiancamento deve sempre essere effettuato con la supervisione di un dentista

(da Odontoiatria33)   L’allarme è arrivato dal web e dalle ricerche di Google che hanno recentemente indicato che lo sbiancamento dentale è una delle ricerche sui trattamenti dentali più effettuato dagli spagnoli.   Per questo motivo, si legge in una nota, il Consejo General de Dentistas si è attivato per ricordare alla popolazione che questo è un trattamento sanitario che va effettuato su indicazione e sotto la supervisione di un dentista abilitato.  Prima di effettuare o prescrivere uno sbiancamento dentale, commenta il presidente Oscar Castro, “il dentista effettua una visita e valuta la situazione orale e gli eventuali problemi gengivali”. Presidente del Consejo General che evidenza come l’utilizzo dei prodotti per lo sbiancamento ad uso professionale prevedono precisi protocolli diagnostici ed accurati programmi di visite di controllo.  Presidente Castro che mette poi in guardia i pazienti “dall’ossessione” dei denti bianchi a tutti i costi e dei rischi per la salute, soprattutto se vengono utilizzate tecniche fai da te o prodotti potenzialmente pericolosi se non utilizzati da un professionista abilitato.

Radiazioni a radiofrequenze e tumori: l’Isde critica l’analisi dell’Iss

(da M.D.Digital)   L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha recentemente pubblicato il rapporto “ISTISAN 19/11” (“Radiazioni a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche”). Tale documento afferma che “l’uso comune del cellulare non sia associato all’incremento del rischio di alcun tipo di tumore cerebrale”, pur attribuendo “un certo grado d’incertezza riguardo alle conseguenze di un uso molto intenso… agli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato da bambini e di un’eventuale maggiore vulnerabilità a questi effetti durante l’infanzia”.  Gli autori del rapporto ritengono che le evidenze disponibili, comprese quelle recenti su modelli animali, “non giustificano modifiche sostanziali all’impostazione corrente degli standard internazionali di prevenzione dei rischi per la salute”. L’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente - Isde Italia ha esaminato in dettaglio il rapporto ISTISAN evidenziandone limiti e inadeguatezze e non condivide le conclusioni né la metodologia adottata nell’elaborazione del rapporto.  Il Presidente del Comitato Scientifico Isde, Dott. Agostino Di Ciaula e il Prof. Benedetto Terracini già Professore di Epidemiologia dei tumori all’Università di Torino, hanno promosso un appello, pubblicato sulla piattaforma Change.org, con il quale si chiede all’Istituto Superiore di Sanità e al Ministero della Salute di ritirare il documento e di rielaborarlo considerando in maniera adeguata tutte le evidenze scientifiche disponibili.  “Ai fini della prevenzione primaria e della tutela della salute pubblica – dichiara il dottor Agostino Di Ciaula, Presidente del comitato scientifico di Isde – non appare giustificabile ignorare o sottovalutare ciò che già sappiamo e declassificare come irrilevante ciò che ancora non sappiamo. Questo potrebbe trasformarsi in un’inaccettabile rilevazione e quantificazione a posteriori di danni altrimenti evitabili.”  “Nelle conclusioni si parla timidamente di incertezze scientifiche – dichiara il professor Benedetto Terracini - ma si evita di esplicitare la sostanza di tali incertezze e non si  propone  quale utilizzo farne a fini di prevenzione primaria, data l’affermata maggiore vulnerabilità dei bambini, alla quale sarebbe da aggiungere quella verosimile delle donne in gravidanza, e dei  soggetti elettrosensibili”.

Obesità e cancro: se la verità offende, meglio cambiarla?

(da Focus.it)  Una importante organizzazione non profit per la ricerca sul cancro, 'Cancer Research UK', è stata sommersa da critiche sui social per una recente campagna pubblicitaria un pò controversa: una serie di cartelloni che mostrano pacchetti di sigarette con stampata la scritta "obesity is a cause of cancer too" (anche l'obesità è una causa del cancro) al posto delle tradizionali frasi antifumo. La questione di fondo è stata quel puntare il dito contro l'obesità, condizione peraltro sempre più diffusa, e non solamente nei paesi anglosassoni.  L'organizzazione si difende dati alla mano: "in Gran Bretagna, gli obesi sono il doppio dei fumatori. La nostra campagna mette in relazione il fumo e l'obesità solamente per mostrare come un cambiamento potrebbe aiutare le persone ad avere abitudini più sane, non per paragonare il tabacco al cibo", si legge nel comunicato di Cancer Research UK (https://www.cancerresearchuk.org/about-us/cancer-news/press-release/2019-07-03-obese-people-outnumber-smokers-two-to-one) che, sul tema dell'obesità, riporta numerosi collegamenti a statistiche e siti istituzionali. I dati sono inoppugnabili, ma non sono bastati a salvare l'organizzazione da pesanti accuse di fat shaming.   Gli inglesi chiamano fat shaming, espressione che traduciamo liberamente in grassofobia il deridere una persona perché è grassa, una "branca" del 'body shaming' (deridere una persona per il suo aspetto fisico).  In Francia è un fenomeno così diffuso (ne sono vittima quasi sei milioni di persone) che nel 2017 è stata istituita una giornata di "lotta alla grassofobia" che ha per paladina Gabrielle Deydier, 150 kg di peso per 1,53 di altezza, autrice di 'One ne nait pas grosse' (non si nasce grassi). Stando a quanto racconta Gabrielle, i nostri cugini d'Oltralpe sarebbero alquanto prevenuti verso gli obesi: la donna racconta le sue difficoltà per trovare un lavoro, gli insulti nei negozi, le prese in giro dei colleghi, i commenti di cattivo gusto di un ginecologo che le consiglia una visita dal veterinario.  Comunque si vogliano chiamare in italiano, fat shaming e body shaming sono comportamenti inaccettabili, profondamente scorretti. È però altrettanto sbagliato fare finta che il problema dell'obesità non esista: se il sovrappeso può forse essere frutto di cattive abitudini che si possono correggere, l'obesità è decisamente una malattia, una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono fattori sia ambientali sia genetici. Secondo l' 'Obesity Monitor 2019, il rapporto presentato quest'anno in occasione del primo summit italiano sull'obesità, organizzato dall' Italian Barometer Diabetes Observatory Foundation (IBDO), le persone obese in Italia sono il 10,8% della popolazione (il 13% nel mondo), le persone in sovrappeso il 34,1% (il 39% nel mondo). Nell'introduzione al rapporto si legge: A livello mondiale, l'Organizzazione mondiale per la Sanità stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l'8 e il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all'obesità. (http://www.ibdo.it/pdf/OBESITY-REPORT-2019.pdf)  Che cosa dobbiamo dunque rimproverare a Cancer Research UK? A posteriori, forse un po' di sensibilità in più non avrebbe guastato (anche se il medico pietoso fa la piaga purulenta, recita il proverbio), ma certo non di avere nascosto la verità.

Ipertensione “da camice bianco” pericolosa nel lungo periodo

(da Univadis)  Una revisione sistematica ha incluso 27 studi osservazionali (64.000 partecipanti), la cui metanalisi ha indicato, dopo 3–19 anni di follow-up, ha concluso che che i soggetti con ipertensione “da camice bianco” (white coat hypertension, WCH) esclusiva e non trattata possono, nel lungo periodo, presentare un rischio relativo maggiore di eventi cardiovascolari maggiori (major cardiovascular event, MCVE), mortalità per tutte le cause (all-cause mortality, ACM) e mortalità CV rispetto ai soggetti normotesi. Tuttavia, questi rischi non erano più alti nei pazienti ipertesi con “effetto da camice bianco” trattato (aumento della pressione arteriosa durante il consulto, con risultati altrimenti normali, in terapia antipertensiva).

( https://annals.org/aim/article-abstract/2735719/cardiovascular-events-mortality-white-coat-hypertension-systematic-review-m

I medici non in regola con gli Ecm sono privi di copertura assicurativa

(da DottNet)    I medici che non si aggiornano o non sono in regola con la formazione professionale obbligatoria o Ecm, l' educazione continua in medicina, rischiano di subire la rivalsa da parte dell' assicurazione e trovarsi senza copertura. Sono le novità previste dallo schema di decreto sulle polizze assicurative del Mise, il ministero dello Sviluppo economico, attuativo dell' articolo 10 (comma 6) della legge Gelli. La norma - riporta il sito 'Studio Cataldi' - prevede infatti che l' assicurazione del medico potrà esercitare il proprio diritto di rivalsa nei confronti dell' assicurato che "non abbia regolarmente assolto all' obbligo formativo e di aggiornamento previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua in medicina per il triennio formativo precedente la data del fatto generatore di responsabilità".   A stabilirlo, in particolare, è l' articolo 3 (comma 3) dello schema di decreto, che nei fatti - evidenziano gli esperti - lascia "il medico privo di una copertura assicurativa per i danni esercitati nello svolgimento della propria attività, se gli obblighi formativi e di aggiornamento Ecm non sono stati regolarmente assolti". La bozza di decreto non si limita a tale previsione, ma regola la copertura assicurativa dei medici in tutti i suoi aspetti, a partire dall' oggetto. L' assicurazione, in particolare, dovrà tutelare i medici e le strutture sanitarie dai rischi che derivano da danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti alla morte del paziente o a lesioni personali, e distruzione o deterioramento di beni in danno di terzi e prestatori di opera con dolo o colpa grave.

Attività fisica, linee guida ignorate. Obesità e patologie connesse in aumento

(da Doctor33)   Obesità e malattie correlate sono un problema di salute pubblica in tutto il mondo e un recente studio pubblicato su JAMA Network Open evidenza che i fattori che ne sono la causa non accennano a migliorare. L'articolo prende spunto da un sondaggio eseguito negli Stati Uniti che si riferisce alle "Linee guida sull'attività fisica per gli americani", emesse nel 2008 e sistematicamente ignorate da gran parte della popolazione che, anzi, è sempre più sedentaria. Condotta su 27.433 partecipanti adulti, l'indagine ha mostrato che i comportamenti sedentari nel 2015 e 2016 occupavano mediamente 6,4 ore al giorno, mentre nel 2007 erano 5,7.   L'insufficiente attività fisica si associa a livello epidemiologico a una maggiore prevalenza delle persone obese e, come fa notare il presidente regionale Lombardia della Società italiana di medicina generale (Simg) Aurelio Sessa, «anche in Italia il fenomeno è molto diffuso: il 10% della popolazione è obeso, con un indice di massa corporea superiore a 30, e se consideriamo le persone sovrappeso, con un BMI tra 25 e 30, arriviamo quasi alla metà degli italiani».   La raccomandazione di fare più esercizio fisico va rivolto anche ai giovani e Sessa segnala in particolare l'aumento allarmante di diabete: «Sta diventando una sorta di epidemia; il diabete di tipo 2 qualche tempo fa si osservava tipicamente nelle persone avanti negli anni mentre oggi aumenta in maniera importante anche nella fascia d'età tra i 20 e i 40 anni; assistiamo inoltre a una diffusione preoccupante dell'obesità in età pediatrica, specie nel Sud Italia, con problemi che questi bambini si porteranno dietro anche quando raggiungeranno l'età adulta».  In questo scenario, il medico di famiglia viene ad assumere un ruolo strategico. «Le persone che si presentano quotidianamente nei nostri studi - dice Sessa - rappresentano uno spaccato significativo della popolazione generale. Molti sono anche i soggetti sani, nei confronti dei quali può essere fatta un'azione preventiva, vagliando alcune abitudini di vita come l'attività fisica, l'alimentazione o il fumo. Ovviamente, poi, c'è chi si rivolge a noi perché soffre di diabete, ipertensione, broncopatia cronica, artrosi... tutte situazioni in cui è utile raccomandare un'attività fisica adeguata alle condizioni del paziente. Simg ha sostenuto in più occasioni l'importanza di prescrizioni non farmacologiche fatte sul proprio ricettario in cui, ad esempio, accanto alla pastiglia per la pressione alta si raccomanda al paziente di fare trenta minuti di attività aerobica a giorni alterni o di ridurre l'apporto di zuccheri semplici e di grassi saturi. Riportare queste indicazioni per iscritto in una ricetta può servire a volte a far sì che vengano più seguite».

Conti correnti: partono i controlli. Nel mirino chi non preleva

(da DottNet)   Col nuovo sistema il sospetto di evasione fiscale si radicherà nei confronti di quei contribuenti che lasceranno intatto il proprio deposito bancario, dimostrando così di avere contanti con cui vivere  Dopo un anno di sperimentazioni rivolte alle grosse società, l’Agenzia delle Entrate ha confermato l’avvio delle procedure di controllo sui prelievi dal conto corrente anche per le persone fisiche. Ottenuto negli scorsi mesi il via libera dal Garante della privacy, tutto è pronto per mandare a regime la cosiddetta 'Super Anagrafe dei conti correnti'. La novità di questo nuovo strumento è un capovolgimento di filosofia rispetto a quella che, in passato, è stata utilizzata dalla Finanza e dagli uffici delle imposte: l’accertamento fiscale non è più mirato a chi esegue sostanziosi prelievi dalla banca, ma verso chi, invece, non ne effettua per nulla. In buona sostanza, il sospetto di evasione fiscale si radicherà nei confronti di quei contribuenti che lasceranno intatto il proprio deposito bancario, dimostrando così di avere contanti con cui vivere.     Ed è proprio la lotta ai contanti che ha ispirato l’avvio di questa nuova era. Non a caso, il software in grado di calcolare i risparmi detenuti sul conto, parametrandoli al reddito percepito, è stato subito battezzato risparmiometro. Per capire di cosa si tratta faremo un esempio pratico. Nel momento in cui l’Agenzia delle Entrate rileverà un risparmio eccessivorispetto ai redditi dichiarati dal contribuente, potrà sospettare che ciò sia stato determinato dalla disponibilità di contanti sfuggita alla dichiarazione dei redditi e, quindi, presumibilmente, da un’evasione fiscale. Per cui l’ufficio delle imposte invierà al correntista un invito a presentarsi personalmente o a mezzo del suo difensore per chiarire – anche per iscritto – la propria posizione. Spetterà al contribuente dimostrare che i soldi con cui ha potuto mantenere la famiglia, lasciando così intonso il conto corrente, derivano da disponibilità lecite, percepite al netto delle tasse (ad esempio una vincita al gioco) o non tassabili e, quindi, da non indicare nella dichiarazione dei redditi (ad esempio un risarcimento o una eredità).   A questo punto, viene la parte più difficile. Tale giustificazione che dovrà dare il contribuente deve essere necessariamente scritta e con data certa. È questa del resto l’unica prova che, in caso di accertamento, può essere accolta dinanzi a una commissione tributaria. Il nuovo meccanismo del redditometro si avvarrà anche della possibilità, per l’Agenzia delle Entrate, di controllare i saldi dei conti correnti di tutti i contribuenti, in modo da essere più incisivo e immediato nello stanare gli evasori.

Antistaminici nella diarrea idiopatica, possibile effetto favorevole.

(da Doctor33)   Alcuni pazienti con diarrea postprandiale (PPD) idiopatica potrebbero trarre beneficio da un trattamento antistaminico, secondo quanto si evince da una casistica pubblicata online su Annals of Allergy, Asthma & Immunology. «La PPD sensibile agli antistaminici si osserva generalmente in pazienti con orticaria cronica idiopatica e dermatografia, e può essere distinta dalla sindrome da attivazione dei mastociti (MCAS). Questa sindrome dovrebbe essere presa in considerazione nella diagnosi differenziale dei pazienti che presentano intolleranza dopo aver escluso allergie alimentari e altri disturbi gastrointestinali» affermano Yasmin Hassoun, Margo Rockwell Stevenson e David Bernstein, della University of Cincinnati, Ohio, autori del documento. I ricercatori riferiscono della presenza di PPD idiopatica in cinque pazienti di età compresa tra 26 e 63 anni con una durata della diarrea che andava da otto settimane a 13 anni. Tutti e cinque i pazienti presentavano dermatografia concomitante. Tre pazienti avevano anche una storia attuale o pregressa di orticaria cronica e tre una storia attuale o pregressa di angioedema. Nessuno di essi aveva avuto un evento scatenante come una malattia virale, né alcuna prova di allergia o intolleranza alimentare o di MCAS, e in tutti la diarrea si verificava solo dopo i pasti o gli spuntini ed entro tre ore dagli stessi. Due pazienti hanno presentato colite linfocitica e infiammazione gastrica e ulcere, ma queste patologie non erano comunque sufficienti a spiegare la diarrea. Dopo gli esami per escludere le altre forme di diarrea, i pazienti hanno ricevuto un trattamento giornaliero con antistaminici H1 e H2. Ebbene, questo trattamento ha risolto la PPD per due pazienti e ne ha alleviato i sintomi per i restanti tre. «Le risposte positive di questi pazienti ai bloccanti dei recettori H1 e H2 suggeriscono che l'istamina rilasciata dai mastociti gastrointestinali sia un mediatore chiave della diarrea postprandiale» affermano gli autori. Anche se non è noto l'esatto meccanismo attraverso il quale il cibo possa stimolare i mastociti, gli esperti ipotizzano che la peristalsi possa svolgere un ruolo in questo processo. Ulteriori studi permetteranno di approfondire queste scoperte basandosi su popolazioni più ampie. (Ann Allergy Asthma Immunol. 2019. doi: 10.1016/j.anai.2019.06.022    https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31279076)  

Più della metà delle diagnosi di BPCO sono casi di sovradiagnosi

(da Univadis)    Messaggi chiave     A livello globale più della metà delle diagnosi di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) sono falsi positivi, in quanto i pazienti non mostrano ostruzione del flusso alla spirometria.  La frequenza della sovradiagnosi, che si associa a un uso inappropriato di farmaci respiratori, è alta in tutto il mondo, ma maggiore nei paesi ad alto reddito.   Questo fenomeno è più comune in caso di donne, alto livello di istruzione, fumo e alcuni sintomi respiratori o comorbidità.

Descrizione dello studio    Sono stati utilizzati i dati dello studio BOLD (Burden of Obstructive Lung Disease), raccolti, tra il 2003 e il 2012, in 23 siti in 20 paesi in tutto il mondo.  Sovradiagnosi di BPCO (falso positivo): paziente senza ostruzione al flusso d’aria misurato tramite spirometria post-broncodilatatore (volume espiratorio massimo nel 1 secondo [FEV1]/capacità vitale forzata [FVC]>limiti inferiori della norma), ma che ha ricevuto una diagnosi di BPCO da parte di un medico.  La BPCO diagnosticata è stata definita come una diagnosi auto-segnalata dal medico di BPCO, bronchite cronica o enfisema o una combinazione di una di queste.  Fonti di finanziamento: enti privati e pubblici globali.

Risultati principali      Su un totale di 16.177 partecipanti, 919 (5,7%) hanno riportato una diagnosi di BPCO.

La spirometria post-broncodilatatore ha mostrato che 569 pazienti (61,9%) non erano ostruiti, e quindi sono stati considerati casi di falso positivo.   Quando è stato usato il rapporto fisso per definire la limitazione del flusso d’aria (FEV1/FVC<0,7), il tasso di sovradiagnosi è stato simile (55,3%).   Dopo esclusione di coloro con diagnosi di bronchite cronica o enfisema (n=220), la limitazione del flusso d’aria non è stata rilevata nel 37,7% (n=83) dei pazienti rimasti.   La prevalenza di falsi positivi è stata diversa tra i paesi e maggiore in quelli ad alto reddito (4,9%) e minore in quelli a basso e medio reddito (1,9%), così come il sovratrattamento (2,4% contro 0,7%, rispettivamente).   L’analisi multivariata ha mostrato che la sovradiagnosi è stata più comune in caso di donne, alto livello di istruzione, fumatori o ex fumatori, e associata a sintomi respiratori (respiro sibilante, tosse e catarro) e comorbidità (asma, malattie cardiache).   L’uso di farmaci respiratori è stato riportato da 260 pazienti (45,7%) con falso positivo, di cui 124 (21,8%) in modo regolare.   Anche quando i pazienti con asma sono stati esclusi, l’uso di questi farmaci è stato riportato dal 34,4% dei partecipanti.

Limiti dello studio    Possibile sovrastima di diagnosi di BPCO, vista la definizione di BPCO diagnosticata.

Perché è importante    Ridurre il tasso di sovradiagnosi di BPCO, problema affrontato solo da un numero esiguo di studi, potrebbe ridurre le spese sanitarie, così come l’uso di farmaci respiratori e l’esposizione ai potenziali effetti avversi. Bisognerebbe fare ogni tipo di sforzo per incoraggiare l'uso di spirometria di alta qualità per supportare la diagnosi di BPCO e l'uso appropriato dei farmaci.

(Lea Sator, Andreas Horner et al. Overdiagnosis of COPD in Subjects With Unobstructed Spirometry A BOLD Analysis. Chest. 2019 Jan 31. pii: S0012-3692(19)30066-2. doi: 10.1016/j.chest.2019.01.015.)  

 

Il colesterolo alto prima dei 40 anni è un rischio cardiovascolare per i successivi 30.

(da Doctor33)   Secondo uno studio, pubblicato su 'JAAC', il monitoraggio dei lipidi tra i 25 e i 40 anni è un mezzo per misurare il futuro rischio cardiovascolare (CVD). «I risultati dimostrano che il monitoraggio precoce dei lipidi prima dei 40 anni identificherebbe la maggioranza dei soggetti con alta probabilità di elevati livelli lipidici nel corso della vita e alto rischio CVD a lungo termine» afferma il primo autore Karol Pencina, della Harvard Medical School, negli Stati Uniti. Sembra infatti che la maggior parte dei giovani adulti con elevati livelli di colesterolo non-HDL (non-HDL-C) continui ad averli alti anche nei successivi 25-30 anni. I ricercatori hanno modellato la progressione del non-HDL-C per più di 30 anni di circa 2.500 partecipanti (25-40 anni) allo studio Framingham Offspring. Durante il follow-up, le traiettorie dei livelli lipidici erano generalmente stabili. Le persone quindi potevano essere assegnate in modo affidabile al gruppo con non-HDL-C alto (≥160 mg/dL) o basso (<130 mg/dL) sulla base di 2 misurazioni effettuate tra i 25 e i 40 anni di età. Con 2 valori elevati, la probabilità di avere un valore di non-HDL-C alto nei successivi 3 decenni era dell'80%. Al contrario, con 2 valori bassi, la probabilità di avere il non-HDL-C ≤160 mg/dL era dell'88%. Inoltre, il rischio CVD nei successivi 25 anni era del 22,6% nei giovani adulti con non-HDL-C alto, contro il 6,4% in coloro con livelli bassi. Quando si calcola il rischio CVD, l'età è un fattore dominante, così i farmaci preventivi vengono prescritti solo per un numero esiguo di giovani anche nel caso di un profilo a rischio. Gli autori hanno calcolato che la terapia con statine avrebbe evitato 1 evento CVD ogni 8 individui trattati. I risultati, oltre a sottolineare l'importanza di monitorare i livelli di non-HDL-C prima dei 40 anni per prevenire il rischio CVD, identificano un sottogruppo di giovani adulti che beneficerebbe della terapia con statine nel lungo termine. «Queste informazioni potrebbero facilitare la discussione informata medico-paziente sui potenziali benefici degli sforzi preventivi di riduzione dei lipidi durante la mezza età» conclude Pencina. In un editoriale correlato Michael Miller, della University of Maryland School of Medicine, commenta: «Lo studio mette in risalto il ruolo del non-HDL-C come biomarker stabile in grado di prevedere eventi CVD che vanno oltre la giovane età adulta».

(J Am Coll Cardiol. 2019 Jul 9;74(1):70-79. doi: 10.1016/j.jacc.2019.04.047.  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31272554

J Am Coll Cardiol. 2019 Jul 9;74(1):80-82. doi: 10.1016/j.jacc.2019.04.048.  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31272555)

Vitamina D per rallentare il diabete di tipo 2

(da DottNet)    Aumentare l' assunzione di vitamina D può rallentare la progressione del diabete di tipo 2 nei pazienti che hanno per la prima volta una diagnosi e in quelli con un forma di prediabete. Lo ha stabilito uno studio dell' Université Laval in Quebec, pubblicato sull''European Journal of Endocrinology'. I risultati della ricerca suggeriscono che l' integrazione con alte dosi (circa 5-10 volte la dose raccomandata) di vitamina D può migliorare il metabolismo del glucosio e aiutare a prevenire lo sviluppo e la progressione del diabete, malattia sempre più diffusa, che può portare ai gravi problemi di salute tra cui danni al sistema nervoso, cecità e insufficienza renale. "Non è chiara la ragione per cui abbiamo riscontrato un miglioramento del metabolismo del glucosio a seguito dell' aumento di vitamina D in soggetti ad alto rischio di diabete o con diabete di nuova diagnosi - spiega Claudia Gagnon, tra gli autori della ricerca - altri studi infatti non erano riusciti a dimostrare un effetto nelle persone con diabete di tipo 2 di lunga data. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i miglioramenti nella funzione metabolica sono più difficili da rilevare in quei soggetti con malattia a lungo termine, o al fatto che è necessario un tempo di trattamento più lungo per vedere i benefici".

Consumo di bevande alcoliche: rischio di demenza a lungo termine

(da Univadis)  Secondo lo studio 'Whitehall II' britannico, il rischio relativo (RR) di demenza a lungo termine nei soggetti di mezza età (35-55 anni) con un consumo tipicamente moderato di alcol (1-14 unità/settimana) è inferiore rispetto al rischio nei soggetti che non bevono alcool o che ne consumano molto.  Lo studio ha arruolato 9.000 partecipanti dal 1985 al 1988 e ha osservato che, dopo un follow-up mediano di 23 anni, il rischio di demenza è maggiore nei casi di consumo di alcol >14 U/settimana (aumento RR lineare del 17% per ogni 7 U/settimana in più) e nei casi di astinenza totale (RR = 1,47), rispetto al consumo moderato. Tuttavia, il rischio accresciuto per i soggetti astemi era parzialmente spiegato dalla presenza simultanea di malattie cardiometaboliche.

(https://www.bmj.com/content/362/bmj.k2927)

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