Malattie cardiovascolari, dormire meno di sei ore aumenta il rischio di morte

(da Doctor33)   Secondo uno studio pubblicato sul Journal of the American Heart Association, gli adulti di mezza età con ipertensione, diabete di tipo 2, malattie cardiache o ictus potrebbero essere ad alto rischio di cancro e morte precoce se dormono meno di sei ore al giorno. «Il nostro studio suggerisce che il raggiungimento di una quantità di sonno normale può essere protettivo per alcune persone con queste patologie e rischi per la salute. Tuttavia, saranno necessarie ulteriori ricerche per esaminare se un miglioramento o un aumento del sonno per mezzo di terapie mediche o comportamentali possa ridurre il rischio di morte prematura» afferma Julio Fernandez-Mendoza, del Pennsylvania State College of Medicine e del Penn State Health Milton S. Hershey Medical Centre, primo autore dello studio. I ricercatori hanno analizzato i dati di oltre 1.600 adulti della Penn State Adult Cohort e li hanno classificati in due gruppi in base alla presenza di ipertensione allo stadio 2 e diabete di tipo 2 oppure patologie cardiache e ictus. I partecipanti hanno trascorso una notte in un laboratorio per lo studio del sonno e sono stati poi seguiti per individuare un’eventuale causa di morte. Delle 512 persone decedute, un terzo è morto per malattie cardiache o ictus e un quarto per cancro. Le persone nel gruppo di ipertensione o diabete che hanno dormito meno di sei ore hanno avuto un rischio aumentato di due volte di morire per malattie cardiache o ictus. Gli individui con malattie cardiache o ictus che hanno dormito meno di sei ore hanno mostrato un aumento di tre volte del rischio di morte per cancro. L’aumento del rischio di morte precoce per le persone con ipertensione o diabete è risultato trascurabile se le ore di sonno erano state superiori a sei. «L’identificazione delle persone con problemi specifici del sonno potrebbe portare a un miglioramento della prevenzione, ad approcci terapeutici più completi, a esiti migliori a lungo termine e a un uso inferiore delle risorse sanitarie» spiega Fernandez-Mendoza. Gli autori sottolineano che il risultato dello studio potrebbe essere stato influenzato dall’effetto del dormire una sola notte in laboratorio, perché i partecipanti potrebbero aver dormito significativamente peggio rispetto al solito.

(J Am Heart Association 2019. Doi: 10.1161/JAHA.119.013043  https://dx.doi.org/10.1161/JAHA.119.013043)

La pasta di sera combatte insonnia, stress e non fa ingrassare

(da http://www.today.it)  La pasta di sera fa ingrassare? La scienza dice che non è vero. Siamo il Paese della pasta, ma solo un piatto di spaghetti su tre viene servito a cena. I quasi 12 milioni di italiani che non la consumano di sera per paura di ingrassare o di compromettere il sonno dovrebbero però ricredersi. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Public Health ha infatti dimostrato che mangiare pasta a cena migliora il riposo notturno, e non fa ingrassare. In occasione della Giornata mondiale del Sonno (15 marzo) una guida di Unione Italiana Food aiuta ad orientarsi tra le ricette di pasta più indicate a cena. E lo spaghetto di mezzanotte? Un rito nato 40 anni fa, tornato in auge grazie alla generazione under 35 e agli chef. Una buona notizia per quei 27 milioni di italiani che soffrono di disturbi del sonno: mangiare pasta a cena fa bene, rilassa, facilita il sonno e non fa ingrassare, anzi fa dimagrire.  Uno studio del Brigham and Women Hospital di Boston, pubblicato sulla rivista The Lancet Public Health, dimostra che la pastasciutta può essere consumata nelle ultime ore del giorno, soprattutto se siamo stressati e soffriamo d’insonnia, grazie alla presenza in questo alimento di Triptofano e Vitamine del gruppo B. In vista della Giornata Mondiale del Sonno, che si svolgerà il 15 marzo, indetta dalla World Association of Sleep Medicine per sensibilizzare sui benefici di un riposo notturno buono e salutare, Unione Italiana Food (già Aidepi), l’Associazione che rappresenta i pastai italiani ha realizzato una guida pratica sulle ricette di pasta e i formati più indicati per l’ultimo pasto della giornata.  La ricerca americana potrebbe far cambiare abitudini a una larga fetta della popolazione italiana che rinuncia a portare questo alimento a cena per paura di ingrassare o dormire male. E infatti mangia pasta il 99% degli italiani, ma il 65% dei consumi di pasta avviene a pranzo, mentre solo il 35% si concentra a cena. Cosa che non accade, ad esempio, per pane, frutta, verdura, carne e perfino dolce, consumati in quantità più o meno equivalenti tra i due pasti principali della giornata. Inoltre, circa 11,6 milioni di italiani non mangiano mai la pasta a cena, mentre solo 3,8 milioni rinunciano alla carne e 6,7 milioni dicono di no al pesce nell’ultimo pasto della giornata.

Benefici e rischi degli inibitori di pompa protonica: il dibattito è aperto

(da Doctor33)    Gli inibitori della pompa protonica (IPP) sono dannosi o benefici? I medici li prescrivono troppo facilmente? Un uso prolungato causa danni? Queste domande sono alla base di un dibattito che, finora, ha visto sostenitori e detrattori confrontarsi senza una sostanziale prevalenza di prove in favore degli uni o degli altri.  Omeprazolo, lansoprazolo, esomeprazolo, pantoprazolo e rabeprazolo sono tra i farmaci di prescrizione più comuni. Sebbene i benefici per i pazienti siano in certi casi innegabili, la sicurezza di questi medicinali è ormai al centro dell’attenzione, con studi e ricercatori che hanno difeso e messo in discussione i benefici, i pericoli e l’uso diffuso, e migliaia di azioni legali soprattutto negli USA, con pazienti che hanno manifestato effetti collaterali tra cui malattie renali e fratture ossee.
Ziyad Al-Aly, della Washington University School of Medicine di St. Louis, e il suo gruppo di lavoro hanno pubblicato a maggio uno studio sul British Medical Journal che ha esaminato i tassi di mortalità associati agli IPP in 157.000 veterani a cui tali farmaci erano stati prescritti per la prima volta, seguendoli per 10 anni. «Esistono prove che suggeriscono che questi farmaci, se usati per un lungo periodo di tempo, specialmente quando non sono indicati dal punto di vista medico, sono associati a gravi effetti collaterali e anche a un aumento della morte per cause specifiche, ovvero per malattie cardiache, malattie renali e cancro allo stomaco» commenta Al-Aly. «Potrebbero esserci anche altri rischi, ma è importante menzionare in questo contesto che gli IPP sono anche farmaci benefici se usati appropriatamente, nel paziente giusto e per la durata indicata. Nei pazienti in cui sono indicati, questi farmaci in realtà salvano anche vite» aggiunge. Al contrario, una ricerca diretta da Paul Moayyedi, della McMaster University in Ontario, Canada, e pubblicata in giugno su Gastroenterology, non ha trovato motivo di preoccupazione. I ricercatori hanno seguito per tre anni 17.598 persone randomizzate ad assumere un IPP o un placebo e non hanno trovato prove a sostegno delle affermazioni secondo cui gli IPP causano patologie gravi come malattie renali croniche, polmonite, diabete e demenza. «Confrontando un gruppo di persone che assumeva placebo e un gruppo che prendeva gli IPP, abbiamo visto che i tassi di malattie cardiache, ictus, polmonite, fratture, malattie renali croniche e demenza erano molto simili. Anche i tassi di cancro erano simili e la mortalità per tutte le cause era quasi identica tra i due gruppi» spiega Moayyedi. L’esperto sottolinea che la maggior parte degli studi sugli IPP è di tipo osservativo e quindi meno affidabile, mentre il suo gruppo ha testato in pratica l’impatto dei farmaci sui pazienti rispetto a quelli semplicemente trattati con placebo.   «Gli studi osservativi hanno mostrato aumenti del rischio di patologie come polmonite o fratture. Tuttavia, in media, i pazienti che assumono IPP sono più malati di quelli che non li prendono e le persone più malate naturalmente soffrono di altre patologie. Noi possiamo affermare che per ora non vediamo danni derivanti dall’uso dei farmaci» conclude. Folasade May, dell’UCLA Health, sta lavorando a uno studio sull’uso eccessivo di IPP, proprio perché ritiene che non vi siano abbastanza lavori soddisfacenti sull’argomento. «Il motivo per cui queste domande e questi studi sono importanti è che ci sono milioni di persone che assumono IPP, e quando un farmaco è così comune, anche effetti collaterali rari possono avere un impatto su molti individui» afferma.
(BMJ 2019. Doi: 10.1136/bmj.l1580   https://www.bmj.com/content/365/bmj.l1580
Gastroenterology 2019.
 Doi: 10.1053/j.gastro.2019.05.056  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31152740)

Iss: antibioticoresistenza emergenza globale, servono risorse

(da Agi)   Il fenomeno dell’antibioticoresistenza, ossia la diffusione di ‘super-batteri’ resistenti a gran parte degli antibiotici conosciuti che prosperano grazie alla “selezione naturale” favorita dall’abuso di antibiotici, è un’emergenza globale, che va affrontata con un lavoro comune di tutti i soggetti coinvolti, ma anche con risorse adeguate. E’ la sintesi dell’intervento di Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, in audizione alla Commissione Affari Sociali della Camera. “Ormai da molti anni a livello internazionale – ha ricordato l’esperto – è stato individuato questo tema come elemento di pericolo globale. L’Ue si è impegnata in maniera forte con un piano specifico dal 2011 in poi e con monitoraggi periodici. Un’emergenza ribadita anche lo scorso 14 giugno da un voto all’unanimità del consiglio europeo dei ministri della Salute, che hanno sottolineato l’importanza di un’azione sinergica, di un approccio ‘one health’, cioè affrontare il problema da tutti i punti di vista”. Anche perchè l’antibioticoresistenza, ha aggiunto Brusaferro, “non è solo un problema umano, non si risolve solo riducendo gli antibiotici all’uomo, ma riguarda anche il mondo veterinario, gli allevamenti, l’agricoltura, l’impatto ambientale”. Per affrontarlo servono risorse: “L’Ocse in un suo recente policy brief – ha detto il presidente dell’Iss – sottolinea che interventi anche molto contenuti di 2 o 3 dollari per persona per anno possono portare a salvare migliaia di vite umane, 9-10mila solo in Italia, e anche un ritorno economico”.

La parodontite aumenta il rischio di ipertensione

(da DottNet)   La malattia delle gengive (parodontite) associata ad un rischio elevato di soffrire di pressione alta e le cure odontoiatriche per controllare la parodontite potrebbero favorire migliori valori di pressione del sangue.  Lo rivela la prima meta-analisi sull’argomento, un’ampia revisione dei dati scientifici di ben 80 studi clinici condotti in 26 paesi i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista ‘Cardiovascular Research’. Lo studio è stato coordinato dall’italiano e socio della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia (SIdP), Francesco D’Aiuto dell’Eastman Dental Institute all’University College di Londra.  “Abbiamo osservato una ‘associazione lineare’ tra indici di malattia gengivale e pressione alta – dichiara D’Aiuto – ovvero più era grave la parodontite, maggiore risultava il rischio di ipertensione per il paziente. Questi risultati suggeriscono che i pazienti con parodontite dovrebbero ricevere informazioni riguardo il rischio, così come ad ogni paziente ci auguriamo vengano date idonee raccomandazioni sugli stili di vita, come la pratica di attività fisica e la sana alimentazione, per prevenire la pressione alta”.  L’ipertensione colpisce dal 30 al 45% della popolazione adulta nel mondo ed è tra le cause principali di morte prematura; la parodontite (malattia che può portare anche alla perdita di denti) colpisce oltre il 50% della popolazione mondiale. L’ipertensione, inoltre, è la principale causa prevenibile di malattie cardiovascolari, come infarto e ictus; la parodontite a sua volta in passato è risultata legata all’aumento di rischio di infarto e ictus. Ma finora mancava uno studio definitivo su ipertensione e parodontite.    Lo studio di D’Aiuto, che colma questo vuoto della ricerca, ha considerato dati relativi a più di 250.000 individui, un’analisi approfondita di tutti gli studi clinici pubblicati ad oggi, che ha permesso ai ricercatori di ricavare i valori di pressione arteriosa di migliaia di persone così come i parametri di salute gengivale. Il gruppo di ricerca londinese ha quindi per la prima volta analizzato l’impatto della parodontite sui valori di pressione sistolica e diastolica. “Abbiamo visto che la diagnosi di parodontite corrisponde a un aumento di 4-5 millimetri (mm) di mercurio dei valori pressori”, spiega D’Aiuto. In aggiunta, è emerso che la parodontite da moderata a grave è associata a un rischio medio del 22% di soffrire di pressione alta; in particolare, chi soffre in modo grave di parodontite ha un rischio di ipertensione quasi del 50% maggiore.  È possibile che la parodontite contribuisca a causare l’ipertensione a causa dell’infiammazione non solo locale ma anche estesa a tutto il corpo (sistemica) legata alla malattia gengivale. Potrebbero esservi anche fattori predisponenti comuni alle due patologie.    “Serviranno adesso studi clinici randomizzati per determinare l’impatto della terapia parodontale sulla pressione del sangue”, conclude D’Aiuto.

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