L’esercizio fisico protegge cuore anche con rischio genetico

(da AGI)  L’esercizio fisico può essere il modo migliore per mantenere il cuore sano e funziona anche per le persone con una predisposizione genetica per le malattie cardiache. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista ‘Circulation’. I ricercatori hanno analizzato i dati riguardanti circa mezzo milione di persone e hanno rilevato che una maggiore forza di presa, più attività fisica e una migliore idoneità cardiorespiratoria sono tutti associati a un ridotto rischio di infarti e ictus, anche tra le persone con una predisposizione genetica alle malattie cardiache. Per le persone con un rischio genetico intermedio per le malattie cardiovascolari, quelle con una forza di presa più forte sono risultate per il 36 per cento meno a rischio di sviluppare malattia coronarica e avevano una riduzione del 46 per cento del rischio di fibrillazione atriale rispetto a coloro con lo stesso rischio genetico ma con presa più debole. Tra gli individui ritenuti ad alto rischio genetico per le malattie cardiovascolari, alti livelli di fitness cardiorespiratorio sono stati associati a un rischio inferiore del 49 per cento di sviluppare una malattia coronarica e un rischio inferiore del 60 per cento per la fibrillazione atriale. “Il principale messaggio di questo studio è che essere fisicamente attivi e’ associato a un minor rischio di malattie cardiache, anche se si ha un alto rischio genetico”, ha detto Erik Ingelsson, autore principale dello studio e professore di medicina alla Stanford University School of Medicine in California.

Enpam: Bilancio 2017 approvato, + 1,16 miliardi di utile

(da enpam.it)   L’Enpam ha chiuso l’esercizio 2017 con un utile superiore a 1,16 miliardi di euro, che ha portato il patrimonio netto a 19,7 miliardi di euro con una crescita del 7,1 per cento rispetto all’anno precedente.  Il Bilancio consuntivo 2017 è stato approvato dall’Assemblea nazionale dell’Enpam con 162 voti favorevoli, 3 contrari e 2 astenuti, nella seduta di sabato 28 aprile.

LA GESTIONE PREVIDENZIALE

Nel 2017 la Fondazione ha registrato entrate contributive pari a 2,648 miliardi di euro, erogando nello stesso periodo prestazioni previdenziali e assistenziali per oltre 1,622 miliardi. A incidere sul fronte delle uscite è stato l’aumento dei pensionati che, come previsto dalla cosiddetta ‘gobba previdenziale’ presente e già scontata nei bilanci attuariali dell’Ente, saranno in crescita ancora per diversi anni.

Il bilancio consuntivo evidenzia nel 2017 un importante incremento del numero dei nuovi titolari di pensioni ordinarie rispetto al 2016. La gestione che registra la variazione minore è la Quota B del Fondo Generale (+ 1,36%), mentre la specialistica ambulatoriale presenta l’aumento maggiore (+35,96%). Di rilievo è anche l’incremento dei nuovi pensionati della medicina generale (+ 21,13%), mentre specialistica esterna e la Quota A del Fondo Generale presentano incrementi meno rilevanti pari rispettivamente a 7,22% e 2,46%.

I dati sui pensionamenti della medicina generale mostrano un costante aumento dell’età media al momento del pensionamento. Il dato, che aveva raggiunto nel 2012 un minimo di 65 anni, ha registrato una crescita continua fino ai 67,6 anni del 2017.  Il dato complessivo evidenzia che i medici di famiglia andati in pensione lo scorso anno sono stati 1.720, con un +21 per cento rispetto all’anno precedente (quando erano stati 1.420) e +92 per cento rispetto alle 898 unità del 2014.

PATRIMONIO DIVERSIFICATO

Nel 2017 il patrimonio della Fondazione ha visto salire a poco più di 5 miliardi di euro la quota investita in attività immobiliari. La percentuale del mattone sul totale tuttavia mostra un calo dal 27 al 26 per cento, a causa del netto aumento degli investimenti finanziari che si attestano poco oltre i 14 miliardi di euro, con un balzo di circa 1 miliardo.  In totale gli investimenti nell’ultimo anno hanno portato 420 milioni di euro lordi nel bilancio civilistico dell’Ente. Da questa cifra vanno sottratti 16 milioni di euro di commissioni e soprattutto 110 milioni di euro in tasse.  Calcolato a valori di mercato il patrimonio dell’Enpam ha superato i 20, 9 miliardi di euro e nel 2017 ha avuto una redditività complessiva del 4,1% al netto di costi di gestione e di tasse.

Metformina, le dosi sicure in pazienti con DMT2 e insufficienza renale cronica in stadio 3 e 4

(da Doctor33)   Sono stati appena pubblicati i risultati di uno studio in aperto, condotto presso un singolo centro, disegnato per testare la sicurezza della metformina nei pazienti con diabete mellito tipo 2 (DMT2) e insufficienza renale cronica (IRC). «Dopo oltre 60 anni, almeno in Europa, dall’ingresso nell’armamentario terapeutico del diabetologo, la metformina ancora oggi continua a essere a pieno titolo la terapia di prima scelta tra i farmaci per il trattamento del DMT2, quando ben tollerata e non controindicata» osserva Vincenzo Novizio della Commissione Farmaci AME(Associazione Medici Endocrinologi). «Malgrado anni di studio che non mostravano alcun aumento del rischio di acidosi lattica quando il farmaco veniva utilizzato in pazienti con IRC lieve-moderata, le linee guida ne vietavano l’uso una volta che la creatinina sierica raggiungeva 1.5 mg/dL negli uomini e 1.4 mg/dL nelle donne, in tal modo privando un notevole numero di pazienti di questo farmaco sicuro ed efficace». Dal 2016 la FDA è diventata più permissiva, prosegue Novizio, dando indicazioni sull’utilizzo del farmaco nei pazienti con DMT2 e IRC in relazione ai valori di velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR): 1) > 60 mL/min: utilizzo libero; 2) 30-59 mL/min: riduzione del dosaggio; 3) < 30 mL/min: divieto.   Nello studio citato in apertura sono state condotte tre differenti analisi, ognuna con uno specifico obiettivo, spiega l’esperto. Primo: identificare la dose ottimale di metformina, dosandone le concentrazioni ematiche per una settimana dopo ciascun incremento di dose, nei pazienti con IRC di stadio 1-5. La dose ottimale di metformina per i pazienti con IRC è risultata: a) stadio 3A (eGFR 45-59): 1500 mg (500 mg la mattina e 1000 mg la sera); b) stadio 3B (eGFR 30-44): 1000 mg (500 mg la mattina e 500 mg la sera); c) stadio 4 (eGFR 15-29): 500 mg/die. Secondo: valutare se, monitorando mensilmente le concentrazioni ematiche di metformina, acido lattico e HbA1c, tali dosi di metformina permanessero ottimali a distanza di 4 mesi di terapia. Le concentrazioni di metformina sono rimaste stabili senza superare il limite di sicurezza di 5.0 mg/L e l’iperlattatemia (> 5 mmol/L) era assente (tranne che in un paziente con infarto del miocardio) e non ci sono state modificazioni dei livelli di HbA1c. Terzo: valutare i parametri farmacocinetici dopo la somministrazione di una singola dose di metformina in ciascuno dei tre stadi di IRC, 3A, 3B e 4. Gli autori dello studio non hanno osservato differenze significative nei parametri farmacocinetici tra i diversi stadi di malattia.  «Inoltre» riprende Novizio «gli autori sottolineano che nei pazienti con IRC in stadio 3 bisogna valutare l’eGRF ogni 6 mesi e bisogna sospendere la metformina nei pazienti con danno renale acuto. Infine, poiché le elevate concentrazioni plasmatiche del farmaco possono associarsi a iperlattatemia, nei pazienti fragili bisogna valutare il lattato» ovvero – riporta il diabetologo – se le concentrazioni sono > 5 mmol/L, bisogna sospendere la somministrazione di metformina mentre nei pazienti con livelli > 2.5 mmol/L, la misurazione deve essere ripetuta dopo poco tempo e la somministrazione di metformina deve essere interrotta dopo due misurazioni consecutive > 2.5 mmol/L. «Nel complesso» conclude Novizio «tali risultati supportano quanto indicato nelle recenti linee guida sull’utilizzo della metformina nei pazienti con DMT2 e IRC».

(Diabetes Care, 2018; 41: 547-53. doi: 10.2337/dc17-2231.
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29305402)

Cassazione: la responsabilità del medico non si limita alla sua specialità

(da Doctor33)    Magari non proprio prescrivere l’esame di un’altra branca, ma raccomandarlo: questo deve fare uno specialista che ha escluso una patologia di sua competenza di fronte a un problema clinico che non si risolve, sulla base delle conoscenze delle linee guida ma anche perché la posizione di garanzia che da medico ha verso il paziente non si esaurisce con il fatto che quest’ultimo lo ha visto una volta sola. Con una recente sentenza la Cassazione dà così torto a un neurologo che non ha indagato anche con elettrocardiogramma il caso di una giovane donna affetta da perdite di coscienza transitorie. Il medico di famiglia l’aveva inviata per indagare una sospetta epilessia. Il neurologo aveva escluso tale patologia e sospettando crisi vagali aveva prescritto il Tilt test. Non ha indagato un possibile problema al cuore che invece alla fine ha portato a morte la ragazza dopo altre sincopi. Al momento del decesso, nel 2007, viene infatti accertata una cardiopatia aritmogena maligna che si sarebbe potuta rendere reversibile con un defibrillatore cutaneo. In 1° grado il neurologo, citato dai familiari della donna, è condannato anche per colpa grave, in appello la pena è estinta per prescrizione ma il medico è condannato a risarcire per colpa grave pagando una provvisionale di 70 mila euro. Gli si imputa di non aver prescritto un elettrocardiogramma a 12 derivazioni che avrebbe consentito una diagnosi differenziale rispetto a quella fatta di sincope neuromediata vasovagale, poi rivelatasi errata.   Il medico ricorre in corte d’appello, con i seguenti argomenti: lui non è il curante ma uno specialista interpellato per branca; non si desume un affidamento incondizionato della paziente a lui; l’ha visitata una volta e non ne è stato più ricontattato; ha chiesto il Tilt test convinto che la paziente avrebbe effettuato anche l’ecg. Lo specialista contesta la presunzione secondo cui uno specialista di una branca – neurologia – possa prescrivere un esame di altra branca – cardiologia. Ricorda che le società cardiologiche nel 2004 nelle loro raccomandazioni per queste sincopi includono il Tilt test. Ma il 3 novembre 2016 la Corte d’appello conferma la sentenza di primo grado definendo il Tilt test “esame di secondo livello a bassa sensibilità e specificità” e ricordando che anche da specialista inoltre il medico ha una posizione di garanzia verso il suo paziente: tale funzione non si interrompe perché la paziente non torna più. Senza essere “pressata” verso l’effettuazione dell’ecg dopo il test neurologico che escludeva patologie la paziente si sentì rassicurata e non approfondì. Secondo le Linee guida, sintetizza la Corte d’Appello, l’unico accertamento idoneo a escludere l’origine cardiaca delle sincopi era l’ecg, che, invece, non fu mai eseguito. Il medico viene condannato, e la condanna è stata ora confermata il 12 gennaio scorso in Cassazione con la sentenza numero 15178/2018. La Suprema Corte non solo conferma i margini di discrezionalità del giudice sulla scelta di linee guida validate per i casi concreti, ma ribadisce che non si può parlare di colpa lieve in caso di negligenza quale quella configurata da una diagnosi la cui incompletezza “determinò il successivo sviluppo degli eventi, con esito infausto per la donna”. E cita il principio di causalità della colpa: il nesso tra un’omissione e un evento infausto non è determinato da un calcolo delle probabilità statistico, ma anche da un calcolo “logico” che a sua volta dev’essere fondato non solo su deduzioni logiche basate su generalizzazioni scientifiche, ma anche “su un giudizio induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulla particolarità del caso concreto”.

1 184 185 186 187 188 218