L’attività fisica è un toccasana anche per chi soffre di demenza

(da Univadis)    Una diagnosi di demenza non rappresenta una controindicazione all’attività fisica, anzi, rimanere (o diventare) attivi dopo la diagnosi si associa a una diminuzione significativa del rischio di decesso. Lo scrivono sulla rivista ‘British Journal of Sports medicine’ i ricercatori guidati da Kye-Yeung Park, del Hanyang University College of Medicine di Seoul (Repubblica di Corea), primo nome dell’articolo. “La demenza è la malattia neurodegenerativa più comune e colpisce circa 50 milioni di persone in tutto il mondo, che si prevede aumenteranno fino a 130 milioni entro il 2050” esordiscono i ricercatori, spiegando che gli studi disponibili sull’associazione tra attività fisica e mortalità in soggetti con demenza si sono finora limitati a valutare l’attività fisica in un unico time point.   Proprio la scarsità dei dati ha spinto Park e colleghi a valutare in modo approfondito l’associazione tra i cambiamenti nel livello di attività fisica prima e dopo la diagnosi di demenza e il rischio di mortalità su una coorte di persone affette da demenza nella Corea del Sud.

Basta poco e non è mai tardi      Per il loro studio retrospettivo, gli autori si sono basati sui dati del database del Servizio di Assicurazione Sanitaria Nazionale coreano, includendo circa 60.000 persone con nuova diagnosi di demenza tra il 2010 e il 2016. Tutti questi soggetti erano stati sottoposti a esami medici sia prima che dopo la diagnosi e l’attività fisica è stata valutata utilizzando l’International Physical Activity Questionnaire-Short Form.   In generale, le analisi hanno fatto emergere un’associazione dose-risposta tra una maggiore quantità di attività fisica e la riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause. Più nel dettaglio, per chi si è mantenuto costante nell’attività fisica sia prima che dopo la diagnosi di demenza vascolare è stata osservata una riduzione del 36% nel rischio rispetto a chi non ha mai svolto attività fisica regolare. La percentuale corrispondente per i pazienti con Alzheimer è stata del 29%. Iniziare a svolgere attività fisica regolare dopo diagnosi di demenza (di qualsiasi tipo) è stato associato a una riduzione del rischio di mortalità del 23%. Infine, è stata osservata una riduzione del rischio di almeno il 20% anche quando la pratica dell’attività fisica – di qualunque intensità – è iniziata dopo la diagnosi di demenza.    “Il nostro studio sottolinea che incoraggiare le persone con demenza a mantenere o iniziare l’attività fisica dopo la diagnosi ha un potenziale valore clinico” concludono gli autori. Un’osservazione interessante anche nel contesto italiano dove, secondo i dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità, sono circa 2 milioni le persone affette da demenza o da un disturbo cognitivo lieve.

(https://bjsm.bmj.com/content/early/2024/10/03/bjsports-2024-108264 )

L’inquinamento da plastiche sta infrangendo tutti i limiti

(da AGI)  L”inquinamento da plastiche sta infrangendo tutti i limiti ambientali, mettendo a rischio la salute della Terra e degli esseri umani. E” quanto emerge da uno studio guidato dall” Università di Stoccolma e pubblicato su One Earth. “È necessario considerare l”intero ciclo di vita della plastica, a partire dall”estrazione dei combustibili fossili e dalla produzione primaria del polimero plastico”, afferma Patricia Villarrubia-Gómez, autrice principale dell”articolo. Ogni anno vengono prodotte 500 milioni di tonnellate di plastica, ma solo il nove per cento viene riciclato a livello globale. La plastica è ovunque: dalla cima del monte Everest alla parte più profonda della Fossa delle Marianne. Attraverso una revisione sintetica della letteratura scientifica sugli impatti della plastica sull”ambiente naturale, il team di ricerca dimostra che l”inquinamento da plastica sta modificando i processi dell”intero sistema Terra e influisce su tutti i problemi ambientali globali, tra cui il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l”acidificazione degli oceani e l”uso di acqua dolce e terra. Lo studio sottolinea la necessità di considerare la complessità delle plastiche. In quanto materiali sintetici a base di polimeri associati a migliaia di altre sostanze chimiche, i loro impatti si verificano durante l”intero ciclo di vita di questi prodotti e materiali. “La plastica è vista come quei prodotti inerti che proteggono i nostri beni preferiti e che può essere ”facilmente smaltita” una volta diventata rifiuto. Ma questo è ben lontano dalla realtà. La plastica è composta dalla combinazione di migliaia di sostanze chimiche. Molte di esse, come gli interferenti endocrini e le sostanze chimiche eterne, sono tossiche e dannose per gli ecosistemi e la salute umana. Dovremmo vedere la plastica come la combinazione di queste sostanze chimiche con cui interagiamo quotidianamente”, afferma Villarrubia-Gómez.

Ricchi, istruiti e impegnati: ecco chi rischia meno la demenza senile

(da DottNet)    Alcuni fattori socioeconomici come istruzione, occupazione e fascia reddituale possono influenzare le probabilità di sviluppare deterioramento cognitivo e demenza in età avanzata, nonché le possibilità di guarigione. È quanto emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista ‘Scientific Reports’, condotto dagli scienziati dell’University College London.   Il team, guidato da Dorina Cadar, ha seguito 8.442 adulti di età pari o superiore a 50 anni in Inghilterra per 10 anni, dal 2008-2009 al 2018-2019. Le informazioni sui fattori socioeconomici sono state raccolte tramite un questionario, mentre il deficit cognitivo è stato determinato utilizzando un mix di fonti, tra cui i resoconti dei partecipanti sulla diagnosi di un medico, i risultati dei test cognitivi e i loro report di sintomi e lamentele.

Oltre a questi aspetti, lo studio ha anche tenuto conto di fattori demografici, come età, genere sessuale e stato civile. Stimando il tempo trascorso in ogni stato cognitivo e la probabilità di transizioni a disturbi neurocognitivi, i ricercatori sono stati in grado di stabilire un nesso tra la progressione dei disturbi di un paziente e la durata di ogni stato cognitivo. Stando a quanto emerge dall’indagine, le persone provenienti da contesti socioeconomici più vantaggiosi, in particolare quelle con istruzione post-secondaria, erano associate a un rischio del 43% più basso di sviluppare deterioramento cognitivo rispetto a chi non aveva completato il percorso di studi.    Il benessere economico riduceva invece del 26% le probabilità di sperimentare tali problemi, e tra gli individui benestanti è stato riscontrata una probabilità di migliorare le proprie condizioni cognitive del 56% più elevata rispetto a chi era in difficoltà economiche.

“Il nostro lavoro – osserva Cadar – evidenzia il ruolo fondamentale dei fattori socioeconomici nella possibilità di sviluppare il deterioramento cognitivo. Abbiamo scoperto, inoltre, che le persone con un reddito più elevato sembravano anche associate a una probabilità più elevata di guarire da un eventuale problema cognitivo”. “La possibilità di recupero – aggiunge Cadar – è fondamentale per migliorare la qualità della vita negli anni successivi e ridurre l’onere a lungo termine del deterioramento cognitivo sui sistemi sanitari, sulle famiglie e sulla società nel suo complesso.

Non possiamo fornire spiegazioni esatte sulle motivazioni alla base della correlazione emersa nel nostro lavoro, ma ipotizziamo che potrebbero esistere varie spiegazioni”. “È possibile – conclude Aswathikutty Gireesh, altra firma dell’articolo – che l’istruzione e i lavori intellettualmente impegnativi forniscano una maggiore stimolazione mentale e aiutino a costruire una riserva cerebrale più forte per aiutare a proteggere gli individui dal deterioramento cognitivo. Allo stesso tempo, le persone con un’istruzione superiore e maggiore disponibilità economica sono associate a un migliore accesso all’assistenza sanitaria e a risorse che promuovono la salute. Speriamo che il nostro studio possa rappresentare la base per approfondimenti futuri”.

Specialità mediche, dalla virologia alla radioterapia ecco quelle a rischio estinzione

(da Doctor33)  Nonostante l’epoca di emergenze infettive, i medici che vogliono diventare microbiologi o virologi sono sempre di meno. Quest’anno solo 13 borse di specializzazione sono state coperte, lasciandone ben 104 non sono state assegnate. Ma la virologia non è l’unica branca a rischio carenza. Secondo i dati forniti all’Adnkronos Salute dal sindacato dei medici ospedalieri Anaao, anche l’emergenza urgenza è a rischio. Sono 716 le borse non attribuite contro 304 andate a buon fine. “Non posso immaginare un futuro senza anatomo-patologi o radioterapisti. Per questo in Finanziaria ci sono aumenti per il trattamento economico delle borse di specializzazione oggi meno attrattive, fra cui Anatomia patologica, Anestesia e Rianimazione, Terapia intensiva e del dolore, Medicina e Cure Palliative, Radioterapia”, ha detto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenendo al XXVI Congresso nazionale dell’Associazione italiana oncologia medica.

In totale, sono 12 le specialità mediche per le quali i posti delle scuole di specializzazione programmati sono rimasti in maggioranza vuoti, con almeno il 50% delle borse non assegnate. Branche che andranno incontro a forti carenze al limite dell’estinzione. Nell’elenco a forte rischio carenza appaiono poi ‘Patologia clinica e biochimica clinica’ (46 assegnate contro 263 rimaste vuote); Farmacologia e tossicologia clinica (20 assegnate 99 no); Radioterapia (31 assegnate 139 no); Medicina di comunità e cure primarie (25 contro 94); Medicina e cure palliative (37 contro 133): Statistica sanitaria e biometria (13 conto 37); Medicina nucleare ( 25 contro 68); Anatomia patologica (89 contro 99); Chirurgia toracica (43 contro 46); Nefrologia (167 contro 189).

“Davanti a questi dati incontrovertibili – spiega all’Adnkronos Salute Giammaria Liuzzi, responsabile nazionale Anaao giovani – l’unica soluzione è riformare la formazione medica, archiviando l’impianto attuale con un contratto di formazione-lavoro, istituendo i learning hospital, con specializzandi che hanno i diritti e i doveri dei dirigenti medici in un contratto incardinato all’interno del contratto nazionale, con retribuzione e responsabilità crescenti e con l’abolizione delle incompatibilità. Una soluzione che ‘stranamente’ non comporta un aumento di spesa perché abolirebbe non il numero chiuso ma la figura dei gettonisti, costati all’erario pubblico ben 1,7 miliardi di euro dal 2019 al 2023”, conclude Liuzzi.

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