Abitudini salutari portano a una vita sana più a lungo.

(da Doctor33)   Attenersi a uno stile di vita sano significa avere una maggiore aspettativa di vita libera da patologie come cancro, malattie cardiovascolari e diabete all’età di 50 anni, secondo uno studio pubblicato sul ‘British Medical Journa’l.    «Fattori come fumo, attività fisica, assunzione di alcol, peso corporeo e qualità della dieta influenzano l’aspettativa di vita complessiva e la probabilità di malattie croniche, ma pochi studi hanno esaminato come una combinazione di fattori di stile di vita possa essere correlata all’aspettativa di vita libera da tali malattie» afferma Yanping Li, della Harvard T.H. Chan School of Public Health, autrice principale dello studio.
Per colmare questa lacuna, i ricercatori hanno analizzato i dati di 73.196 donne dal Nurses’ Health Study e di 38.366 uomini dallo Health Professionals Follow-up Study, liberi da cancro, malattie cardiovascolari e diabete all’arruolamento, seguendoli per più di 20 anni. Gli esperti hanno utilizzato cinque fattori di stile di vita a basso rischio, ovvero non aver mai fumato, l’indice di massa corporea (Imc), fare 30 minuti al giorno di attività fisica, l’assunzione moderata di alcol e una dieta di buona qualità, per calcolare un punteggio di stile di vita sano. Dopo aggiustamento per fattori potenzialmente influenti, l’aspettativa di vita libera da cancro, malattie cardiovascolari e diabete all’età di 50 anni è stata di 24 anni per le donne che non hanno adottato fattori di vita a basso rischio e di 34 anni per le donne che hanno adottato quattro o cinque fattori a basso rischio. Per quanto riguarda gli uomini, l’aspettativa di vita libera da una delle malattie croniche prese in considerazione è stata di 24 anni per chi non ha adottato fattori di stile di vita a basso rischio e di 31 anni per chi ha adottato quattro o cinque fattori di stile di vita a basso rischio. Gli uomini che fumavano 15 o più sigarette al giorno e uomini e donne obesi (Imc pari a 30 o più) hanno avuto la percentuale più bassa (75% o meno) di aspettativa di vita libera da malattia a 50 anni.    «Le politiche pubbliche mirate a migliorare lo stile di vita, nonché i regolamenti, come quello che vieta il fumo nei luoghi pubblici o quello che impone restrizioni sui grassi trans, sono fondamentali per aumentare l’aspettativa di vita libera da importanti malattie croniche» concludono gli autori.
(Bmj 2020. Doi: 10.1136/bmj. l6669   https://doi.org/10.1136/bmj.l6669

 

Negli ospedali mancano geriatri e posti letto per gli anziani

(da M.D.Digital)  La Società italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg) e la Società Italiana di Geriatria Ospedale e Territorio (Sigot), lanciano l’allarme e chiedono che venga accresciuta la disponibilità di posti letto di geriatria e vengano implementati nei Pronto soccorso i percorsi dedicati ai pazienti geriatrici. Occorre inoltre istituire la figura dell’infermiere di emergenza geriatrica, debitamente formato, e aumentare il numero dei posti di specializzazione in geriatria.
Tutte indicazioni già messe nero su bianco nel documento “Il ricorso dei pazienti geriatrici al Pronto Soccorso e al ricovero ospedaliero”, predisposto da un gruppo tecnico istituito presso il Ministero della Salute con la partecipazione dei rappresentanti delle due società scientifiche. Documento trasmesso il 28 marzo del 2018 dal Ministero alla Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, con l’obiettivo di approdare alle Conferenza Stato-Regioni per essere definitivamente approvato, ma che, incomprensibilmente, a quasi due anni di distanza è ancora in attesa di essere calendarizzato in Conferenza Stato-Regioni.
La Sigg e la Sigot si appellano al Ministro della Salute Roberto Speranza e al Presidente delle Regioni Stefano Bonaccini perché accelerino l’iter per l’approvazione del documento. 

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Due volte vittima: dopo le violenze c’è il rischio di malattie croniche

(da M.D.Digital)   Le donne che sopravvissute a episodi di abusi domestici hanno un rischio raddoppiato di sviluppare malattie croniche che causano dolore fisico diffuso e estrema stanchezza: lo si legge in uno studio condotto dalle Università di Birmingham e Warwick, pubblicato sul Journal of Interpersonal Violence. La ricerca ha dimostrato che le donne che hanno subito abusi domestici hanno quasi il doppio delle probabilità di sviluppare fibromialgia e sindrome da affaticamento cronico (CFS) rispetto a chi ha sempre vissuto in ambienti sereni e armoniosi. La fibromialgia provoca dolore in tutto il corpo, mentre la CFS è una malattia caratterizzata da una vasta gamma di sintomi, il più comune dei quali è l’estrema stanchezza. Sono entrambe condizioni croniche.  Lo studio, il primo del suo genere, ha esaminato i dati dei Mmg, compresi tra il 1995 e il 2017, relativi a 18.547 donne che avevano subito abusi domestici, rispetto a 74.188 che non erano state vittime di tali episodi. Ed è emerso che il rischio di sviluppare fibromialgia e CFS nelle donne che avevano subito abusi domestici era il doppio del tasso di coloro che non avevano esperienza di tal genere, che si manteneva tale anche dopo dopo aver preso in considerazione i fattori potenzialmente confondenti. Il rapporto di incidenza per lo sviluppo di fibromialgia era 1.73, il rapporto del tasso di incidenza per lo sviluppo di CFS era 1.91.  Questi dati si aggiungono a quelli di un precedente studio, condotto dall’Università di Birmingham e pubblicato nel giugno 2019, che aveva dimostrato che le vittime di abusi domestici nel Regno Unito hanno una probabilità tre volte maggiore di sviluppare gravi malattie mentali. Tuttavia, fino ad ora sono stati pochi gli studi progettati per valutare la relazione tra gli abusi subiti dalle donne e la probabilità che di sviluppare malattie a lungo termine come la fibromialgia e la CFS.  Il dott. Joht Singh Chandan, dell’Institute of Applied Health Research dell’Università di Birmingham e della Warwick Medical School dell’Università di Warwick, ha dichiarato: “Gli abusi domestici – ha dichiarato il primo autore dello studio – sono un problema globale di salute pubblica, con una donna su tre colpita in tutto il mondo. Recenti stime del Regno Unito suggeriscono che il 27.1% delle donne ha subito una qualche forma di abuso domestico, con una grande percentuale di questi casi che si ritiene siano dovuti a violenza per mano di un partner intimo. Considerando la prevalenza di abusi domestici e il fatto che i pazienti che soffrono di fibromialgia e CFS spesso affrontano ritardi nella diagnosi a causa di una comprensione limitata in generale di come si originano queste condizioni, è importante che i medici tengano presente che sopravvivere ad abusi espone le vittime a un aumento del rischio di queste patologie.  È auspicabile che questi risultati possano far cambiare l’approccio sanitario, migliorando le possibilità di aiuto nella diagnosi precoce della fibromialgia e della CFS in donne che sono state maltrattate. Chi sopravvive agli abusi domestici sperimenta un immenso stress fisiologico e psicologico. E i cambiamenti che si verificano nell’organismo a seguito di tale stress possono tradursi in una moltitudine effetti negativi sullo stato complessivo di salute. Saranno necessarie ulteriori ricerche per stabilire i percorsi biopsicosociali alla base di questo legame tra abuso e sviluppo di cronicità. Si tratta infatti di relazioni molto complessa ed è importante sottolineare che non tutte le donne che sono state maltrattate svilupperanno fibromialgia o CFS e, viceversa, che soffrire di queste condizioni non significa che ci siano stati abusi domestici in passato.  Il professor Siddhartha Bandyopadhyay, del Dipartimento di Economia e Centro per la criminalità, la giustizia e la polizia della Business School dell’Università di Birmingham, ha dichiarato: “Siamo stati consapevoli che gli abusi domestici hanno effetti negativi significativi sulle vittime e i loro figli. Questi dati uniti ad altri studi che mostrano forti associazioni con diverse malattie suggerisce che i costi dell’abuso sono persino maggiori di quanto precedentemente compreso. La maggiore incidenza di malattie a lungo termine, come la sindrome da stanchezza cronica, per le donne maltrattate implica l’esistenza di un ulteriore costo nascosto per la società che è necessario comprendere meglio”.

(Chandan JS, et al. Intimate Partner Violence and the Risk of Developing Fibromyalgia and Chronic Fatigue Syndrome.  J Interpers Violence 2019 Dec 6:886260519888515. doi: 10.1177/0886260519888515) 

Un adolescente su sette ha comportamenti autolesionistici. Rischio dipendenza

(da Doctor33)   In Italia un adolescente su sette manifesta comportamenti autolesionistici, che risultano in crescita in tutto il mondo occidentale. Pubblicata sulla rivista Suicide a cura dei ricercatori dell’Università del Queensland, in Australia, una revisione di una dozzina di studi condotti tra Usa, Canada e Gran Bretagna stima che in questi Paesi il fenomeno coinvolga addirittura il 20% degli adolescenti.
Anche se difficile da quantificare in modo preciso, l’autolesionismo è dunque estremamente diffuso.
«Si tratta di una strategia di coping, di regolazione emotiva nei confronti di tutto ciò che viene vissuto come indesiderato e intollerabile, – dice Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia – il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato di tollerabilità: a fronte di una sofferenza che non sa come gestire, la porta sul piano del dolore fisico. Le modalità sono diverse, ma la più frequente è quella del cosiddetto autolesionismo stereotipico, con comportamenti ripetuti, costanti, ritmici, apparentemente senza significati simbolici. Nella maggior parte dei casi, si tratta di ferite superficiali, con tagli, bruciature o abrasioni che producono un lieve danneggiamento dei tessuti, ma si tratta anche di una forma di comunicazione e richiamo dell’attenzione. Viviamo nella cosiddetta “società emozionale”, in cui tutto diventa emozione, che a volte viene sentita come debordante, mentre le strutture psicologiche non sono così salde per poterle contenere; in questo contesto, il dolore fisico autoinflitto viene tollerato in quanto riduce la pressione emozionale».  Spesso i comportamenti sono reiterati, fino a diventare una dipendenza che, se non trattata, può trascinarsi fino all’età adulta.
«L’approccio più comune è quello cognitivo-comportamentale – spiega Mencacci – che mira soprattutto alla riduzione dei sintomi autolesivi. Ma è ovviamente importante formulare una diagnosi complessiva, dato che spesso il fenomeno è connesso a problematiche come depressione, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della personalità… Con l’ausilio delle tecniche cognitivo-comportamentali, oltre a individuare gli aspetti irrazionali e i pensieri negativi che precedono gli atti autolesivi, si aiutano i giovani a trovare modalità più adeguate per affrontare gli stress collegati. Può anche aiutare la partecipazione a gruppi di skill training, con cui si educano questi soggetti a coltivare le emozioni positive, spesso sopraffatte da quelle negative che innescano la spinta autolesionistica».

Cassazione: il medico apicale è responsabile per i suoi colleghi

(da DottNet)  Il medico dirigente è responsabile dell’operato dei colleghi che hanno ricevuto la delega. Ha infatti il compito di programmare in maniera adeguata il lavoro dei suoi collaboratori, provvedere all’indirizzo terapeutico e verificare e vigilare le prestazioni di diagnosi e cura affidate ai medici che ha delegato. Se non lo fa, risponde personalmente per l’eventuale evento infausto cagionato dai subordinati al paziente. Lo esplicita la sentenza numero 50619/2019 della Corte di cassazione come riporta StudioCataldi.it   Il medico delegante, attraverso la delega ai colleghi subordinati, non si spoglia infatti della sua posizione di garanzia, ma continua a essere gravato dell’onere di vigilare, indirizzare e controllare l’operato dei delegati. In concreto, tale obbligo di garanzia consiste nel verificare che i medici espletino correttamente le funzioni che sono loro delegate e nell’eventuale esercizio del potere, residuale, di avocare alla propria responsabilità diretta un caso clinico specifico. Del resto, come rilevato dai giudici nella recente sentenza, le modifiche dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri che ci sono state nel corso degli anni 90 del secolo scorso, pur avendo attenuato la forza del vincolo gerarchico che lega il dirigente medico ospedaliero con i medici che con lui collaborano, non hanno comunque eliminato il potere-dovere del sanitario – si legge sul sito di Studiocataldi –  che si trova in posizione apicale di “dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura, ed infine il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti”.   Di conseguenza, se il medico apicale svolge correttamente i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo, egli non potrà mai essere chiamato a rispondere di un evento infausto causato da un medico della propria struttura. Se, invece, non lo fa, per la Cassazione sarà responsabile in prima persona.

I professionisti non possono essere sottoposti alle regole delle imprese

(da Odontoiatria33)   Convocata al Parlamento Europeo in rappresentanza dei liberi professionisti italiani su iniziativa del gruppo Ppe, l’AdEPP (l’Associazione degli Enti Previdenziali Privati) ha chiesto all’Europarlamento di riconsiderare il ruolo dei liberi professionisti, evitando che siano sottoposti alle stesse regole di concorrenza previste per le imprese.  “L’esercizio professionale ha un valore di interesse collettivo e pubblicistico perché si riferisce a dei diritti fondamentali di tipo civile e sociale, che sono il diritto alla salute, il diritto alla difesa, alla libertà – compresa quella d’espressione –, il diritto alla sicurezza, anche sociale, e il diritto alla tutela del lavoro e dei risparmi”, ha detto in audizione, secondo il sito dell’Associazione, Alberto Oliveti, il presidente dell’associazione degli enti di previdenza privati (AdEPP).   All’audizione hanno partecipato anche le federazioni europee di ingegneri, avvocati, medici e le federazioni dei liberi professionisti di Germania e Belgio.“Recepiamo l’apertura alla concorrenza che l’Europa ha impresso alle professioni liberali, tuttavia sottolineiamo che senza una regolamentazione dell’esercizio professionale si correrebbe il rischio di abbassarne il livello qualitativo – ha detto Oliveti –. Quindi sì alla liberalizzazione ma attenzione a che non si traduca in una deregolamentazione che incida sulla qualità e impedisca un controllo efficace della prassi legale della professione e delle sue norme deontologiche”.   “Crediamo che le tre parole innovazione, sviluppo e crescita non siano automaticamente consequenziali – ha continuato il presidente dell’AdEPP –. Non necessariamente dall’innovazione nasce sviluppo, come non necessariamente la creazione di valore porta a una crescita, se a questa non si accompagna un sistema di protezione sociale che garantisca una coesione sociale”.    L’AdEPP, stando quanto riportato sul proprio sito, sollecita il Parlamento Europeo a realizzare una “relazione d’iniziativa” sulla situazione dei professionisti in Europa e sull’impatto delle trasformazioni che li stanno interessando. Altro obiettivo proposto è avviare un percorso per definire criteri, indicatori e standard di qualità per le varie professioni liberali con la finalità di armonizzarne l’esercizio a livello europeo.

Fare attività fisica ai livelli raccomandati riduce il rischio di sette tipi di cancro

(da Doctor33)  Secondo un’analisi di nove studi prospettici che hanno coinvolto più di 750.000 adulti, praticare la quantità di attività fisica raccomandata dagli esperti si associa a un rischio inferiore di sviluppare sette tumori, in alcuni casi con una relazione dose/risposta.   «Anche se è noto da tempo che l’attività fisica sia associata a un rischio inferiore per diversi tumori, la forma della relazione è poco chiara e non si sa se la quantità raccomandata di attività fisica sia associata a un rischio inferiore» spiega Charles Matthews, del National Cancer Institute di Bethesda, Stati Uniti, primo autore dello studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology.   «Le linee guida aggiornate per l’attività fisica affermano che le persone dovrebbero puntare a 2,5-5 ore alla settimana di attività di intensità moderata o 1,25-2,5 ore alla settimana di attività vigorosa» ricorda.
I ricercatori hanno preso in considerazione come attività di intensità moderata quelle che sono abbastanza veloci o intense da bruciare da tre a sei volte più energia rispetto a stare seduti tranquilli (da 3 a 6 equivalenti metabolici dell’attività, o Met) e come attività ad alta intensità quelle che bruciano più di 6 Met, e hanno studiato i dati di nove coorti in cui i partecipanti, sottoposti a follow-up per l’incidenza di cancro, hanno riportato l’attività svolta nel tempo libero. Ebbene, l’analisi dei dati ha mostrato che impegnarsi nella quantità consigliata di attività (da 7,5 a 15 ore Met alla settimana) è stato associato a un rischio significativamente inferiore di sette dei 15 tipi di cancro valutati, con una riduzione crescente man mano che aumentano le ore di attività.   In particolare, l’attività fisica è risultata associata a un minor rischio di cancro al colon negli uomini (8% per 7,5 Met ore alla settimana; 14% per 15 Met ore alla settimana), di carcinoma mammario (6% -10%) e di carcinoma endometriale (10% -18%) nelle donne, di carcinoma renale (11%-17%), di mieloma (14%-19%), di cancro al fegato (18%-27%) e di linfoma non-Hodgkin (11%-18% nelle donne).  La risposta è stata di forma lineare per metà delle associazioni e non lineare per le altre.
«Le linee guida sull’attività fisica sono state in gran parte basate sul loro impatto su malattie croniche come malattie cardiovascolari e diabete, ma i nostri dati forniscono un forte supporto al fatto che questi livelli raccomandati siano importanti anche per la prevenzione del cancro» conclude Alpa Patel, dell’American Cancer Society, co-autrice del lavoro.
(J Clin Oncol. 2019. Doi: 10.1200/JCO.19.02407  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31877085)

Spese sanitarie detraibili 2020 e POS: un po’ di chiarimenti

Dal 1 Gennaio 2020 è in vigore la norma sulla tracciabilità delle detrazioni fiscali del 19% prevista dalla Legge di Bilancio 2020 (art. 15 TUIR) che obbliga i contribuenti a pagare con strumenti tracciabili (carte bancomat, carte di credito, assegno o bonifico) le spese sanitarie, ad esclusione dei soli acquisti di medicinali e dispositivi medici, che saranno pagabili in contanti, così come le prestazioni sanitarie rese da strutture pubbliche o private accreditate al Servizio sanitario nazionale.  Questo comporta che molti professionisti non ancora in possesso di terminali POS dovranno procurarseli per dare ai loro pazienti la possibilità di detrarre le spese sostenute presso i loro studi professionali.

Se è vero, infatti, che non sono entrate in vigore le tanto temute sanzioni e che l’obbligo di dotarsi di queste apparecchiature di fatto ancora non c’è, l’Art 15 sopra citato è un “obbligo mascherato” anche per i Medici di Medicina Generale, perché se pagate in contanti le certificazioni e le altre prestazioni rese in libera professione non potranno essere detratte in alcun modo dagli assistiti. In mancanza di POS, l’unica alternativa sarà fornire l’IBAN per farsi fare un bonifico bancario o accettare un assegno

Va comunque puntualizzato che due delle certificazioni più spesso richieste, quella per la Invalidità INPS e quella per il Pensionamento anticipato su modello SS3 si considerano in tutto  e per tutto “prestazioni di tipo medico-legale” e come tali non sono detraibili ai fini fiscali.  Secondo questa interpretazione, pertanto, queste certificazioni potrebbero essere ancora pagate in contanti, anche se è comunque obbligatoria per esse la fattura con IVA e la spedizione dei dati economici ad essa relativi mediante il sistema Tessera Sanitaria, entro il 31 Gennaio dell’anno successivo, norma in vigore da gennaio 2015.

Per quanto riguarda il POS, infine, si specifica che anche se è stata stralciata la norma che prevedeva l’attivazione di sanzioni per chi non consente l’utilizzo del POS medesimo, è stato introdotto un incentivo economico a chi lo adotta. Dal primo luglio 2020 viene infatti istituito un credito d’imposta del 30% sulle commissioni addebitate per le transazioni effettuate attraverso i terminali POS. Il credito di imposta si applicherà alle partite Iva che nel 2019 non abbiano superato ricavi o compensi oltre i 400 mila euro. Un decreto attuativo stabilirà le modalità operative,

A cura del Dott. Gian Galeazzo Pascucci e della Rag. Montserrat Giunchi

 

N.B. IN ALLEGATO DOCUMENTO INFORMATIVO A CURA DI “Dica 33” DA AFFIGGERE IN SALA DI ATTESA

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