Il consumo di alcol contribuisce al dolore

da Quotidiano Sanità)   Secondo la ‘National Survey on Drug Use and Health’ del 2021, i disturbi associati all’alcol (AUD – alcohol use disorder) interessano 29,5 milioni di persone solo negli USA. Gli AUD possono spesso provocare l’insorgere di numerose malattie croniche, disturbi cardiaci, ictus, patologie epatiche e alcune forme tumorali.
Tra i problemi legati ai disturbi associati all’alcol a maggior impatto a lungo termine c’è anche il dolore: più della metà delle persone con AUD lo sperimentano nella forma persistente.   Alcuni studi hanno mostrato come gli AUD incidano sul cervello nel processo del signaling del dolore e rivestano un ruolo importante anche nell’attivazione del sistema immunitario.  La sospensione dell’alcol, invece, può provocare allodinia, una condizione in cui uno stimolo anche innocuo è percepito come doloroso.
Lo studio     Per scoprire le cause alla base di questi diversi tipi di dolore correlato all’alcol, il team dello Scripps Research Institut – coordinato da Marisa Roberto – ha condotto uno studio su animali da laboratorio divisi in tre gruppi: quelli dipendenti dall’alcol, che abusavano delle bevande alcoliche, animali che avevano accesso limitato all’alcol, quindi non considerati dipendenti, che facevano un uso moderato di alcool, e quelli che non avevano mai assunto alcol.   Dai risultati è emerso che nel primo gruppo, la sospensione dell’alcol provocava allodinia e il successivo accesso all’alcol riduceva la sensibilità al dolore.   Circa la metà degli animali che non erano dipendenti dall’alcool mostrava segnali di aumento della sensibilità al dolore durante la sospensione dell’alcol ma, a differenza degli animali dipendenti, questa condizione non scompariva con una nuova esposizione all’alcol.  Andando, poi, a misurare i livelli di proteine infiammatorie negli animali, i ricercatori hanno scoperto che i pathway infiammatori erano elevati sia negli animali dipendenti, sia in quelli non dipendenti, mentre le molecole specifiche erano aumentate solo negli animali dipendenti.

(https://bpspubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/bph.16091)  

La vitamina D potrebbe ridurre il rischio di infarto. Ecco per quali soggetti è indicata

(da Doctor33)   Secondo uno studio clinico pubblicato dal ‘British Medical Journal’, gli integratori di vitamina D possono ridurre il rischio di eventi cardiovascolari gravi, come l’infarto, nelle persone di età superiore ai 60 anni. Lo studio è stato condotto da Rachel Neale del QIMR Berghofer Medical Research Institute, Population Health Program, in Australia. Si tratta del più grande trial clinico di questo tipo condotto finora.
In questo lavoro, i ricercatori australiani si sono posti l’obiettivo di verificare se l’assunzione di dosi mensili di vitamina D modifichi il tasso di eventi cardiovascolari gravi. Il D-Health Trial è stato condotto dal 2014 al 2020 e ha coinvolto 21.315 australiani di 60-84 anni, che hanno ricevuto una capsula di vitamina D da 60.000 UI (10.662 partecipanti) o un placebo (10.653 partecipanti) da assumere per via orale all’inizio di ogni mese per un massimo di 5 anni. I dati sui ricoveri ospedalieri e sui decessi sono stati poi utilizzati per identificare gli eventi cardiovascolari, tra cui infarti, ictus e rivascolarizzazione coronarica (trattamento per ripristinare il normale flusso sanguigno al cuore). La durata media del trattamento è stata di 5 anni. Durante lo studio, 1.336 partecipanti hanno sperimentato un evento cardiovascolare grave (6,6% nel gruppo placebo e 6% nel gruppo vitamina D).
Il tasso di eventi cardiovascolari gravi è risultato inferiore del 9% nel gruppo vitamina D rispetto al gruppo placebo (equivalente a 5,8 eventi in meno ogni 1.000 partecipanti). Il tasso di infarto è stato inferiore del 19% e il tasso di rivascolarizzazione coronarica è stato inferiore dell’11% nel gruppo della vitamina D, ma non vi è stata alcuna differenza nel tasso di ictus tra i due gruppi. I risultati suggeriscono che l’integrazione di vitamina D può ridurre il rischio di eventi cardiovascolari maggiori. “Questo effetto protettivo potrebbe essere più marcato nei soggetti che assumono statine o altri farmaci cardiovascolari al basale”, aggiungono, e suggeriscono la necessità di ulteriori valutazioni per contribuire a chiarire questo aspetto.

Meno della metà dei nuovi farmaci è migliore di quelli in uso

(da DottNet)   Meno della metà dei nuovi farmaci approvati dalle agenzie regolatorie aggiunge un valore terapeutico sostanziale rispetto ai trattamenti esistenti: lo rivela un lavoro dell’Università di Zurigo pubblicato sul British Medical Journal. I pazienti hanno bisogno di trattamenti migliori, non solo di altri uguali a quelli già in uso, sostiene l’autore del lavoro Kerstin Vokinger. I nuovi farmaci sono spesso utilizzati non solo come prima indicazione per una malattia, ma anche per altre malattie (indicazioni supplementari). Ma lo studio rileva che meno della metà delle prime indicazioni approvate per i nuovi farmaci in USA e Europa tra 2011 e 2020 aggiungono un valore terapeutico sostanziale rispetto ai trattamenti esistenti e solo un terzo circa delle approvazioni supplementari. I ricercatori hanno esaminato tutti i nuovi farmaci approvati con più di un’indicazione negli Stati Uniti e in Europa tra il 2011 e il 2020 e valutato il valore terapeutico delle indicazioni supplementari rispetto alle prime indicazioni.   Hanno utilizzato i dati pubblicamente disponibili per identificare 124 prime indicazioni e 335 indicazioni supplementari approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense e 88 prime indicazioni e 215 indicazioni supplementari approvate dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA) tra gennaio 2011 e dicembre 2020. Negli Stati Uniti, il 48% dei farmaci aveva una sola indicazione supplementare, il 20% ne aveva due, il 14% ne aveva tre e il 18% ne aveva quattro o più. In Europa, il 48% dei farmaci aveva un’indicazione supplementare, il 23% due, il 13% tre e il 17% quattro o più. La maggior parte (58%) delle indicazioni approvate dalla FDA e dall’EMA riguardava farmaci antitumorali. Le valutazioni terapeutiche degli organismi di valutazione delle tecnologie sanitarie (Health Technology Assessment – HTA) francesi e tedeschi erano disponibili per 107 (86%) prime indicazioni e 179 (53%) indicazioni supplementari negli Stati Uniti e per 87 (99%) prime indicazioni e 184 (86%) indicazioni supplementari in Europa. Tra le indicazioni approvate dalla FDA con valutazioni disponibili, il 41% (meno della metà, 44 su 107) aveva valutazioni di alto valore terapeutico per le prime indicazioni, e il 34% (61 su 179) per quelle supplementari. In Europa, il 47% (41 su 87) delle prime indicazioni e il 36% (67 su 184) delle supplementari avevano valutazioni di alto valore terapeutico.

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