Ecco i superbatteri più pericolosi per l’uomo. L’Oms aggiorna la lista

(da Doctor33)   L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha aggiornato la Lista dei Patogeni Prioritari Batterici (BPPL) per il 2024 modificandola rispetto a quella uscita nel 2017, evidenziando 15 famiglie di batteri resistenti agli antibiotici suddividendoli in tre categorie di priorità. Questa lista vuole aiutare a redigere linee guida migliori per delineare i trattamenti necessari a fermare la diffusione della resistenza antimicrobica (AMR).

L’aggiornamento della BPPL incorpora nuove evidenze e pareri esperti per orientare la ricerca e lo sviluppo (R&D) di nuovi antibiotici e promuovere il coordinamento internazionale per favorire l’innovazione.
I patogeni classificati a priorità critica rappresentano minacce globali significative a causa del loro elevato carico di malattia, capacità di resistere ai trattamenti e di diffondere la resistenza ad altri batteri.
I patogeni di alta priorità rappresentano un carico particolarmente elevato nei paesi a basso e medio reddito, che pongono sfide significative negli ambienti sanitari e per la salute pubblica, includendo infezioni persistenti e resistenza a più antibiotici, necessitando di ricerche e interventi mirati.
I patogeni di media priorità presentano un elevato carico di malattia in alcune aree del modo. Questi richiedono maggiore attenzione, soprattutto nelle popolazioni vulnerabili, inclusi bambini e anziani, in contesti a risorse limitate.

La lista ha visto diversi cambiamenti rispetto alla precedente, con nuove combinazioni patogeno-antibiotico inserite ed altre che hanno cambiato categoria o che sono state eliminate; i cambiamenti pubblicati riflettono la natura dinamica e l’intensificarsi dell’AMR, richiedendo quindi specifici interventi mirati. L’Oms sottolinea come la lista sia indicativa e che debba necessariamente essere adattata ai contesti nazionali e regionali tenendo conto delle specifiche situazioni.    La BPPL 2024 sottolinea anche la necessità di un approccio sanitario pubblico globale per affrontare l’AMR, compreso l’accesso universale a misure di prevenzione, diagnosi e trattamento appropriato.
“La resistenza antimicrobica mette a rischio la nostra capacità di trattare efficacemente le infezioni portando a malattie gravi e aumentando la mortalità,” ha affermato il Dott. Jérôme Salomon, Assistant Director-General for Universal Health Coverage, Communicable and Noncommunicable Diseases dell’OMS.
“La lista è fondamentale per guidare gli investimenti e affrontare la crisi dell’approvvigionamento degli antibiotici e dell’accesso ai farmaci”, ha dichiarato la Dott.ssa Yukiko Nakatani, Assistant Director-General for Antimicrobial Resistance ad interim dell’OMS per la Resistenza Antimicrobica”.   La BPPL 2024 comprende i seguenti batteri:

Priorità critica:
Acinetobacter baumannii, resistente ai carbapenemi;
Enterobacterales, resistente alle cefalosporine di terza generazione;
Enterobacterales, resistente ai carbapenemi;
Mycobacterium tuberculosis, resistente alla rifampicina.

Alta priorità:
Salmonella Typhi, resistente ai fluorochinoloni;
Shigella spp., resistente ai fluorochinoloni;
Enterococcus faecium, resistente alla vancomicina;
Pseudomonas aeruginosa, resistente ai carbapenemi;
Salmonella non tifoidea, resistente ai fluorochinoloni;
Neisseria gonorrhoeae, resistente alle cefalosporine di terza generazione e/o ai fluorochinoloni;
Staphylococcus aureus, resistente alla meticillina.

Media priorità:
Streptococchi di gruppo A, resistenti ai macrolidi;
Streptococcus pneumoniae, resistente ai macrolidi;
Haemophilus influenzae, resistente all’ampicillina;
Streptococchi di gruppo B, resistenti alla penicillina.

Con donne medico minori tassi di morte e ricovero. Ecco perché

(da Doctor33)   Essere presi in cura da un medico donna potrebbe ridurre il rischio di morte: lo suggerisce uno studio pubblicato sugli ‘Annals of Internal Medicine’ secondo cui le cure prestate da medici donne portano a tassi più bassi di mortalità e di ricovero ospedaliero. Inoltre, le pazienti donne beneficiano più dei pazienti maschi, dell’essere seguiti da un medico donna.

Lo studio è stato condotto tra Università di Los Angeles, Università di Tokyo, Università di Harvard e di San Francisco e si basa sui dati Medicare 2016-2019 per circa 458.100 pazienti donne e quasi 319.800 pazienti maschi. Di questi, 142.500 e 97.500, o circa il 31% per entrambi, sono stati trattati da medici donne. Gli esiti primari erano la mortalità a 30 giorni dalla data del ricovero ospedaliero e il ricovero a 30 giorni dalla data di dimissione. Lo studio svela che il tasso di mortalità per le donne era dell’8,15% se trattate da medici donne rispetto all’8,38% quando il medico era maschio – una differenza clinicamente significativa secondo i ricercatori. Per i maschi essere seguiti da medici donne porta a un vantaggio con un tasso di mortalità del 10,15% rispetto al tasso del 10,23% dei pazienti seguiti da medici maschi. Lo stesso vale per i tassi di ricovero ospedaliero. “I nostri risultati suggeriscono che medici donne e maschi praticano la medicina in modo diverso e queste differenze hanno un impatto significativo sui risultati di salute dei pazienti”, spiega l’autore Yusuke Tsugawa. “Ulteriori ricerche sui meccanismi in atto e sui motivi del fatto che il beneficio sia maggiore per le pazienti donne, potrebbero migliorare gli esiti clinici in generale”. Tra le ipotesi in campo c’è che i medici maschi potrebbero sottovalutare la gravità della malattia delle loro pazienti donne – ricerche precedenti hanno notato che i medici maschi sottovalutano i livelli di dolore, i sintomi gastrointestinali e cardiovascolari e il rischio di ictus delle loro pazienti donne, il che potrebbe portare a cure ritardate o incomplete. Inoltre, le donne medico potrebbero essere più capaci di comunicare con le pazienti donne, indirizzandone meglio le cure.

Relazione audizione FNOMCEO “nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 503 Speranza, C. 1533 Consiglio regionale del Piemonte, C. 1545 Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna, C. 1608 Consiglio regionale della Toscana, C. 1626 Consiglio regionale delle Marche, C. 1712 Consiglio regionale della Puglia, C. 1741 Schlein e C. 1846 Quartini, recanti “Disposizioni per il sostegno finanziario del Servizio sanitario nazionale”.

comunicazione FNOMCeo 54

Chiarimenti riguardo all’adempimento Legge Regionale 22/2019 e DGR 1919/2023

Con riferimento alle informazioni richieste in relazione all’oggetto, si informa che questo Servizio riceve le comunicazioni ed esegue un controllo esclusivamente formale, prima di trasmetterle all’AUSL e al Coordinatore Regionale per l’Autorizzazione e l’Accreditamento.

La comunicazione di svolgimento attività sanitaria deve essere trasmessa utilizzando il modello elettronico reperibile sulla piattaforma telematica regionale “Accesso Unitario”, al link: https://accessounitario.lepida.it.
In particolare, dopo aver selezionato il Comune (ove ha sede lo studio professionale), dovrà selezionare:
  1. RICERCA CLASSICA
  2. SUAP MODULISTICA ATTIVITA’ PRODUTTIVE
  3. AGRICOLTURA COMMERCIO DEMANIO TURISMO E ALTRE ATTIVITÀ PRODUTTIVE
  4. STRUTTURE SANITARIE
  5. Comunicazione svolgimento di attività sanitaria in studi medici e di altre professioni sanitarie non soggetti ad autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria attivati successivamente al 20 dicembre 2023 o già operanti al 20 dicembre 2023
Per poter trasmettere la comunicazione è necessario accedere con SPID e firmare digitalmente il riepilogo pratica.

La prescritta modalità telematica è obbligatoria ai sensi di quanto disposto dal D.Lgs. n. 82/2005 e dal D.P.R. n. 160/2010 e come previsto dalla nota del Direttore Generale Cura della Persona, Salute e Welfare della Regione Emilia-Romagna prot. PG 14.03.2024.0278272.U.

Per ulteriori approfondimenti può consultare il sito Salute Regione Emilia-Romagna alla pagina https://salute.regione.emilia-romagna.it/ssr/strumenti-e-informazioni/autorizzazione-e-accreditamento/sanitario/autorizzazione dove – tra l’altro – è presente il paragrafo:
Presentazione della domanda, istruzioni per la compilazione, modulistica e un TUTORIAL per la presentazione delle domande online attraverso la piattaforma Accesso Unitario rete SUAP-ER  
oppure contattare il Dipartimento di Sanità Pubblica dell’AUSL.

Un linguaggio stigmatizzante aumenta gli errori medici

(da Univadis – Roberta Villa)   Utilizzare termini stigmatizzanti per riferirsi a un paziente, non solo definendolo come “difficile”, ma anche e soprattutto in relazione alle sue origini etniche o alle sue condizioni socioeconomiche, è sintomo di un pregiudizio che può portare a commettere gravi errori nel ragionamento diagnostico o nell’iter che dovrebbe condurre alla diagnosi. Riferirsi a una persona senza fissa dimora come “al barbone del letto 5”, per esempio, rispecchia un’attitudine all’ascolto inferiore a quella riservata al compagno di stanza. E il linguaggio non rispecchia solo i pensieri ma può anche condizionare il modo di pensare, e le azioni che ne conseguono, al punto da compromettere il processo diagnostico e la sicurezza del paziente.

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha voluto verificarlo esaminando retrospettivamente quasi 2.350 ricoveri in una trentina di ospedali nel corso del 2019, individuando in più di un caso su 5 alcuni errori diagnostici che hanno portato la o il paziente a morte o all’ingresso in terapia intensiva nelle 48 ore successive all’accesso. In parallelo, sono stati esaminati i passaggi di consegna e le note scritte da medici, infermieri o personale non sanitario in relazione a tutti questi pazienti, individuando in media nel 5% dei casi un “linguaggio stigmatizzante”, nel senso che metteva in dubbio la credibilità del paziente, faceva riferimento a stereotipi razziali o sociali, esprimeva disapprovazione nei suoi confronti o lo descriveva come “difficile”.

La frequenza di linguaggio stigmatizzante era molto diversa da ospedale a ospedale, passando da quelli in cui si trovava in solo l’1% delle note a quelli in cui raggiungeva l’8%, in relazione alle caratteristiche demografiche dei pazienti e al livello di complessità del centro. Le persone afroamericane erano vittime di un linguaggio stigmatizzante in quasi il 10% dei casi, contro il 3,9% degli asiatici o il 3,8% dei caucasici, ma il gruppo più a rischio di subirlo erano persone senza fissa dimora o con instabilità abitativa, che lo subivano nel 15% dei casi.

Il dato più rilevante, però, è che un linguaggio stigmatizzante si trovava in percentuale doppia (8%) in riferimento ai pazienti poi oggetto di un grave errore diagnostico rispetto a quelli in cui tutto è andato liscio (4%). In particolare, un approccio stigmatizzante era associato a errori diagnostici provocati da ritardo nella presa in carico all’accesso (il doppio che negli altri) e peggior comunicazione con pazienti e caregiver (quasi quattro volte più frequente).

Il linguaggio come specchio dell’azione – Il dato non si può generalizzare a tutti gli Stati Uniti né tanto meno all’Europa. Non necessariamente rispecchia la realtà ospedaliera, e non va certo interpretato in senso quantitativo, ma dovrebbe far riflettere ancora sull’importanza del linguaggio come specchio ma anche motore del pensiero e dell’azione.

Durante i primi anni della pandemia abbiamo verificato come l’uso dell’una o dell’altra metafora per descrivere la diffusione del coronavirus plasmasse la percezione di una situazione per molti versi del tutto nuova: se l’ondata di nuovi casi era descritta come uno “tsunami”, era difficile pensare di poterla controllare, tutt’al più ci si poteva proteggere; utilizzare invece l’immagine di un incendio che prende piede da una scintilla in una sterpaglia, ma può essere spento, o interrotto da un fronte frangifiamme, implica un atteggiamento diverso anche in termini di azioni concrete. Prima ancora si era parlato di questo in campo medico soprattutto in relazione alla narrazione del cancro: le metafore e il linguaggio bellico, che possono suscitare una reazione positiva in alcuni, rappresentano per molti altri, di carattere meno “combattivi”, un ulteriore ostacolo nell’accettazione e nella gestione della malattia e delle cure.

Lo stesso si applica alle espressioni discriminanti tradizionalmente usate per descrivere le persone LGBQT+: anche se si è convinti che la scelta delle parole non abbia nulla a che vedere con le proprie idee, certi epiteti sono talmente incastonati in una cultura irrispettosa dei diritti di questi gruppi che utilizzarli, per quanto in buona fede, porta quasi inevitabilmente con sé anche tutto il carico di discriminazione da cui sono nati. E viceversa: sforzarsi di evitarli comporta ogni volta di ricorrere a un pensiero razionale che scaccia anche i pregiudizi di cui non siamo consapevoli.

Troppo spesso si liquida questa attenzione come un omaggio al “politically correct”, come se rispettare tutti potesse essere considerata una moda come tante altre provenienti da oltreoceano. Le parole invece contano, e hanno un potere. Sulla nostra mente e sui nostri gesti. Non dimentichiamolo.

(https://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/article-abstract/2817610)

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