Rapporto su professionalità ed etica dell’American Heart Association e dell’American College of Cardiology

(da Popular Science e MSD Salute)   La rivista ‘Circulation’ ha pubblicato il nuovo rapporto dell’American Heart Association (AHA) e dell’American College of Cardiology (ACC) sull’etica e la professionalità medica.
Il documento affronta argomenti importanti e attuali come diversità, equità, inclusione e appartenenza, disuguaglianze etniche e di genere, conflitto di interessi, benessere clinico, privacy dei dati, giustizia sociale e moderni sistemi di erogazione dell’assistenza sanitaria nella medicina cardiovascolare.  Il rapporto si basa sugli atti della Consensus Conference on Professionalism and Ethics 2020 e aggiorna le precedenti linee guida pubblicate dai gruppi nel 2004. Il comitato di redazione del rapporto è un gruppo eterogeneo di cardiologi, internisti e professionisti sanitari associati e non specialisti, organizzati in cinque Task Force, ciascuna delle quali ha affrontato una serie specifica di argomenti correlati.     Le raccomandazioni per sostenere l’equità nella cura del paziente includono, tra le altre cose, una revisione annuale delle pratiche, per valutare le eventuali differenze nel trattamento dei pazienti in base alla “razza” (tra virgolette, in quanto termine biologicamente scorretto ma socialmente in uso), all’etnia e alla lingua primaria.
Questa revisione dovrebbe valutare strutture, politiche e norme e identificare opportunità di intervento e miglioramento. L’AHA e l’ACC ribadiscono la loro approvazione dei Principles of Professionalism pubblicati nel 2002 nella Physician Charter on Medical Professionalism. Entrambe le organizzazioni riaffermano inoltre il loro impegno per la giustizia sociale nelle nuove raccomandazioni. “Fino all’80% della salute di una persona è determinata dalle condizioni sociali ed economiche del suo ambiente”, commenta Ivor Benjamin, primo autore del rapporto. “Per raggiungere la giustizia sociale e mitigare le disparità sanitarie, dobbiamo spostare le nostre discussioni e includere le popolazioni come i gruppi rurali ed emarginati dal punto di vista dell’equità sanitaria”.

Il rapporto chiede una formazione su questi temi come parte dei requisiti e delle esperienze del corso della scuola di medicina: un corso obbligatorio su giustizia sociale, “razza” e razzismo come parte del curriculum del primo anno; programmi scolastici e organizzazioni professionali che sostengono studenti, tirocinanti e membri e un’immersione e una collaborazione con le comunità circostanti.    Il rapporto descrive in dettaglio ulteriori opportunità per migliorare l’efficienza della tecnologia dell’informazione sanitaria, come le cartelle cliniche elettroniche, e ridurre gli oneri amministrativi; identificare e assistere i medici che sperimentano condizioni di salute mentale, alcolismo o abuso di sostanze; enfatizzare l’autonomia del paziente utilizzando un processo decisionale condiviso e un’assistenza centrata sul paziente che supporti i valori del singolo paziente; ulteriori protezioni della privacy per i dati dei pazienti utilizzati nella ricerca; indicazioni sul mantenimento dell’integrità man mano che emergono nuove modalità di erogazione dell’assistenza (ad esempio, telemedicina, approcci assistenziali basati sul team, centri specializzati di proprietà dei medici); audit di routine delle cartelle cliniche elettroniche per promuovere un’assistenza ottimale ai pazienti nonché una pratica medica etica; e ampliare e rendere obbligatoria la segnalazione di interessi intellettuali o associativi oltre ai rapporti con l’industria.   Naturalmente la questione razziale è molto sentita negli Stati Uniti, ma non solo.  “Non c’è momento migliore di adesso per rivedere, valutare e assumere una nuova prospettiva sull’etica e la professionalità medica”, commenta Michael Valentine, co-autrice del rapporto. Ci auguriamo che questo rapporto fornisca ai professionisti cardiovascolari e ai sistemi sanitari le raccomandazioni e gli strumenti necessari per affrontare i conflitti di interesse, razziali ed etnici e le disuguaglianze di genere e favorisca la diversità, l’inclusione e il benessere tra la nostra forza lavoro”.

Diecimila passi al giorno? In realtà pare che ne bastino meno

(da M.D. Digital) L’Organizzazione mondiale della sanità, l’American Heart Foundation e il Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti hanno concordato nell’adottare i 10mila passi come raccomandazione sull’attività fisica da fare quotidianamente, ma negli ultimi anni la veridicità di questo numero è stata messa più volte in discussione. C’è anche una sorpresa: l’obiettivo dei 10mila passi non deriva da conferme scientifiche ma è frutto di una trovata pubblicitaria. Nel 1964, all’epoca dei Giochi Olimpici, la società giapponese Yamasa lancio sul mercato il primo contapassi e battezzandolo “manpo-kei”, cioè “10mila passi”, ritenendo che questo fosse un numero indicativo di uno stile di vita attivo e quindi sano. Tuttavia, questo numero non è mai stato scientificamente provato.  Esistono invece conferme scientifiche che indicano quanto è opportuno camminare per mantenersi in buona salute: secondo uno studio pubblicato su JAMA Network Open, le persone che fanno 7.000 passi o più al giorno hanno un rischio inferiore di morte prematura rispetto a coloro che fanno meno passi al giorno.   I ricercatori dell’Institute for Applied Life Sciences presso l’Università del Massachusetts, Amherst, hanno utilizzato i dati dello studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults per stimare l’associazione tra numero di passi al giorno con la prematura mortalità (età compresa tra 41 e 65 anni) per tutte le cause. L’analisi ha incluso 2.110 partecipanti (di età compresa tra 38 e 50 anni) con numero di passi giornalieri misurati da un accelerometro dal 2005 al 2006 e con un follow-up medio di 10.8 anni.  I ricercatori hanno osservato un rischio significativamente più basso di mortalità nei gruppi a numero di passi moderato (rapporto di rischio, HR 0.28; differenza di rischio, 53 eventi per 1.000 persone) e alto (HR 0.45; differenza di rischio, 41 eventi per 1.000 persone) rispetto a numeri bassi.  Un numero di passi moderato/alto era associato a un rischio ridotto di mortalità nei partecipanti di razza nera (HR 0.30) e di razza bianca (HR 0.37) e in entrambi nelle donne (HR 0.28) e negli uomini (HR 0.42).   Se camminare fa indubbiamente bene non dobbiamo però essere ossessionati dal raggiungimento dell’obiettivo dei 10mila passi, dato che non vi sono evidenze che questo sia strettamente necessario per mantenersi in salute.

(Paluch AE, et al. Steps per Day and All-Cause Mortality in Middle-aged Adults in the Coronary Artery Risk Development in Young Adults Study. JAMA Netw Open 2021; 4: e2124516. doi:10.1001/jamanetworkopen.2021.24516

Spartano NL, et al.  What Are the Next Steps for Developing a National Steps Guideline? JAMA Netw Open 2021; 4: e2125267. doi:10.1001/jamanetworkopen.2021.25267)

Gismondo, in tv con autorizzazione? ‘No, se diamo nostro pensiero’

(da Adnkronos Salute) – Virologi, immunologi, infettivologi in tv, alla radio o intervistati dai giornali su Covid-19 solo se autorizzati? “No, se si tratta di parlare di scienza e illustrare il proprio pensiero scientifico, cosa che noi professori universitari dobbiamo fare istituzionalmente. Altra cosa se si tratta di fornire dati di gestione interna o comunque dati sensibili” della propria Asl o ospedale di appartenenza. Così Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, commenta all’Adnkronos Salute l’Ordine del giorno, a firma del deputato del gruppo Misto Giorgio Trizzino, accolto ieri dal Governo.  Nell’Odg si chiede “un impegno a intervenire affinché tutti i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche o private (virologi, immunologi, infettivologi, igienisti ecc.), e degli organismi ed enti di diretta collaborazione con il ministero della Salute, possano partecipare alle trasmissioni televisive o radiofoniche e rilasciare interviste previa esplicita autorizzazione della propria struttura sanitaria di appartenenza”.  Gismondo dunque traccia un confine tra le opinioni e posizioni scientifiche personali e “l’attenersi al codice deontologico, che tutti dobbiamo rispettare in quanto appartenenti all’Ordine dei medici”, ricorda. “Nel rapporto con le aziende sanitarie nelle quali operiamo – sottolinea – è ovvio che vige una deontologia che non permette di dare dati di gestione interna, numero di pazienti, dati sensibili se non autorizzati dalle direzioni. Il che – rimarca l’esperta – è ben diverso dall’esprimere il proprio punto di vista scientifico”.

‘Virologi in tv solo se autorizzati’, governo accoglie Odg Trizzino

(da Adnkronos Salute) – Il governo ha accolto “un mio ordine del giorno” nel quale si chiede “un impegno a intervenire affinché tutti i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche o private (virologi, immunologi, infettivologi, igienisti ecc.) e degli organismi ed enti di diretta collaborazione con il ministero della Salute, possano partecipare alle trasmissioni televisive o radiofoniche e rilasciare interviste previa esplicita autorizzazione della propria struttura sanitaria di appartenenza”. Lo annuncia il deputato del gruppo Misto Giorgio Trizzino.  “Questo strombazzamento mediatico costruito spesso per la ricerca della ribalta e della notorietà è responsabile di un numero imprecisato di vittime. Credo che non si sia posta la necessaria attenzione al fenomeno e che adesso si debba porre un freno a questa vergogna”, conclude il medico siciliano, ex M5S.

Percezione del rischio per Covid, cosa la influenza?

(da M.D.Digital)   Con l’aumento dei contagi da variante Delta, gli spostamenti da un paese all’altro per le vacanze, gli assembramenti per eventi sportivi o spettacolari, la frequentazione dei locali e tutto ciò che in questa nuova fase della pandemia da Covid stiamo vivendo, è fin troppo evidente a tutti che il nostro atteggiamento collettivo rispetto al coronavirus è drasticamente cambiato rispetto a non molti mesi fa.  Se questo è vero e sotto gli occhi di tutti, la domanda immediatamente successiva è: cosa influenza la nostra percezione del rischio rispetto al Covid? Un gruppo di ricercatori italiani di varia formazione, sia medica che psicologica, è partito da questa domanda per svolgere una ricerca in merito.  Lo studio, pubblicato da ‘Frontiers in Psychology’, che nasce da una collaborazione multicentrica tra l’Istituto Auxologico Italiano, l’Istituto Europeo di Oncologia, l’Università degli Studi di Bergamo e Milano e l’Ospedale San Paolo e Policlinico di Milano, ha indagato la percezione del rischio per Covid nella popolazione italiana, in un campione di 911 cittadini adulti intervistati tramite un questionario online.

Obiettivo dello studio    L’obiettivo dello studio è duplice: da un lato mettere in evidenza quali fattori, soprattutto psicologici, influenzano tale percezione, dall’altro, verificare se la percezione del rischio fosse associata alla misura in cui i cittadini si sono attenuti alle misure preventive.

Risultati dello studio    Come sottolineato dalla dott.ssa Barbara Poletti, responsabile del Centro di Neuropsicologia di Auxologico San Luca di Milano: “i nostri risultati suggeriscono che la percezione del rischio per Covid è un fenomeno complesso, determinato dall’interazione di molteplici fattori”. In particolare, situazioni di maggiore “prossimità” al pericolo contribuiscono ad aumentare la percezione del rischio. Come suggerito dalla dott.ssa Sofia Tagini, psicologa e ricercatrice del Servizio di Neuropsicologia e Psicologia Clinica di Auxologico: “ciò è probabilmente dovuto al fatto che determinate circostanze rendono tangibili le possibili conseguenze del contagio”. Infatti, un maggiore rischio percepito è stato osservato in coloro che hanno vissuto il lutto di amici o familiari o coloro che hanno una maggiore esposizione al Covid a causa del proprio lavoro.

Inoltre, la prof.ssa Gabriella Pravettoni, professoressa ordinaria di Psicologia generale in Statale e direttore della Divisione di Psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, spiega che i risultati dello studio dimostrano come “persone più ansiose tendono a percepire un rischio maggiore, probabilmente poiché sono generalmente più sensibili nel cogliere potenziali pericoli. Infatti, abbiamo osservato che persone che adottano maggiormente una modalità ansiosa di relazione e comportamento in risposta a potenziali pericoli (ad esempio, caratterizzata da una risposta emotiva particolarmente accentuata, nel tentativo di attirare un possibile supporto sociale) tendono a percepire un rischio maggiore. Al contrario, persone che adottano una modalità più evitante tendono a percepire minor rischio, probabilmente poiché tendono a negare il problema e de-attivare le emozioni rilevanti”.  In aggiunta, lo studio dimostra che sentirsi ben informati rispetto ai sintomi, alla prognosi e alle modalità di contagio incrementa il rischio percepito. Come sottolinea la dott.ssa Roberta Ferrucci, ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano, “questo risultato è particolarmente rilevante per le istituzioni, considerata la responsabilità nel promuovere una comunicazione il più possibile chiara e coerente”.

Non di meno, è interessante notare che la ricerca ha dimostrato come persone che tendono a percepire la propria salute come qualcosa che dipende dagli altri, al di fuori dal loro controllo, si sentono più a rischio. Così come una personalità molto “aperta”, creativa, e intellettuale contribuisce a diminuire il rischio percepito. I ricercatori ipotizzano infatti che un’elevata creatività potrebbe facilitare la definizione di molteplici “vie d’uscita” e, possibilmente, scenari più ottimistici.    Infine, il prof. Vincenzo Silani, professore ordinario di Neurologia dell’Università degli Studi di Milano e primario di Neurologia all’Auxologico San Luca, evidenzia che “i risultati di questo studio mostrano come un’elevata percezione del rischio si associa a una maggiore adesione ai comportamenti preventivi, sottolineando l’utilità pratica e non solo teorica di studiare tale fenomeno. Tali risultati potrebbero facilitare e ottimizzare la gestione della situazione attuale, ma anche circostanze simili in futuro”.

(Tagini S, et al.  Attachment, Personality and Locus of Control: Psychological Determinants of Risk Perception and Preventive Behaviors for COVID-19. Front Psychol 2021; 12: 634012.  doi: 10.3389/fpsyg.2021.634012)  

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