La tecnologia al servizio della prevenzione cardiovascolare: l’utilità dei dispositivi indossabili (es Smart Watch) nell’attività fisica e nella prevenzione della fibrillazione atriale

(da Cardiolink)  L’ottimizzazione dei fattori di rischio e dello stile di vita ha rilevanza per la salute pubblica per la prevenzione della fibrillazione atriale (FA), a causa dell’elevato numero di individui affetti e dell’elevata morbilità e mortalità di tale malattia. In questo contesto, la relazione tra attività fisica e FA è di enorme interesse, ma i potenziali benefici e i danni derivanti dai diversi livelli di attività fisica sono ancora in gran parte sconosciuti. L’attività fisica estrema aumenta il rischio di FA negli atleti di resistenza. Sono stati riportati diversi adattamenti del cuore dell’atleta osservati negli uomini e nei modelli animali in relazione al rischio di FA, come cuori più grandi con aumento del carico di volume, in particolare degli atri, aumento del tono vagale, compromissione del nodo seno fibrosi atriale e infiammazione. Un’attività fisica moderata, al contrario, sembra essere associata a un minor rischio di FA ed è raccomandata per la prevenzione. Gli effetti di un’attività fisica regolare da bassa a moderata nella popolazione sono difficili da differenziare dai potenziali effetti dello stile di vita e di altri fattori di rischio cardiovascolare correlati come l’obesità. L’immobilità riflette comorbidità come l’insufficienza cardiaca e l’apnea notturna, così come la fragilità, e può quindi essere un indicatore di un aumentato rischio di sviluppare FA. Comprendere la relazione a forma di U tra attività fisica e rischio di FA è stata una sfida. Un ostacolo è stato, fino ad ora, la corretta quantificazione dell’attività fisica nelle popolazioni. È noto che le stime delle attività autodichiarate non sono affidabili. La frequenza dell’attività fisica, ad esempio il numero di giorni alla settimana, la durata dei periodi di esercizio e l’intensità giocano sicuramente un ruolo importante. Inoltre, è molto probabile che i modelli temporali e di intensità dell’attività fisica alterino i loro effetti cardiovascolari. Come quantificare in modo obiettivo l’attività fisica? Khurshid e colleghi hanno finalmente superato l’imprecisione degli studi precedenti: hanno identificato >90 000 individui nella biobanca britannica con dati analizzabili da accelerometri da polso (smarth watch) indossati per 1 settimana. Lo studio fornisce un cambio di passo nella nostra comprensione della relazione tra attività fisica e FA. L’analisi di Khurshid et al. conferma che l’attività fisica che si avvicina alla soglia di attività fisica da moderata a vigorosa, raccomandata dalle società cardiache e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è associata a un ridotto rischio di FA. Periodi più lunghi di attività fisica più intensa sono stati associati a FA incidente e ictus nel corso di un follow-up di 5 anni. Non inaspettatamente, l’accordo tra l’attività fisica quantificata oggettivamente e l’attività fisica auto-riferita raccolta utilizzando il questionario internazionale sull’attività fisica era debole. L’attività fisica auto-riferita non era significativamente associata né alla FA né all’ictus, sebbene nei >400.000 individui della biobanca britannica l’associazione avesse raggiunto una significatività statistica per la FA. L’analisi attuale fa avanzare la ricerca sull’attività fisica e sulla FA dall’ordinale al numerico: quantificare l’attività, anche se solo nell’arco di una settimana, fornisce chiaramente informazioni più affidabili e quantificabili rispetto a chiedere ai partecipanti i loro livelli di attività. La comprensione della dose ottimale e del modello di attività fisica sarà avanzata sostanzialmente da tale quantificazione. Fortunatamente, la stima quantificabile dell’attività è ora prontamente disponibile tramite dispositivi indossabili. I risultati del rapporto di Khurshid e colleghi si inseriscono nell’emergente relazione a forma di U tra attività fisica e rischio di FA. Studi che utilizzano l’attività fisica misurata oggettivamente in popolazioni fisicamente attive come gli atleti sono quindi da effettuare per determinare il punto di svolta in cui un esercizio vigoroso compensa gli effetti benefici su altri fattori di rischio di FA. Inoltre, nonostante l’aggiustamento per i fattori di rischio di FA, i meccanismi con cui l’esercizio riduce il rischio di FA incidente rimangono sconosciuti. Dalla diagnostica quantitativa agli interventi sanitari mobili. L’uso a livello di popolazione di un accelerometro offre uno sguardo sulle opportunità future per stimare e alterare il comportamento che modifica la salute. Con oltre 100.000 app sanitarie mobili e oltre 400 monitor di attività indossabili attualmente disponibili, la tecnologia mobile offre possibilità nuove e convenienti per la prevenzione e la cura del paziente. L’integrazione delle informazioni provenienti da biosensori complementari consente sempre più la messa a punto dello stile di vita e dei fattori di rischio nella vita quotidiana per l’ottimizzazione del rischio attraverso quantificazione semi-continua, valutazione e feedback istantaneo, possibilmente motivazionale. Chiaramente, c’è un’urgente necessità di valutare il beneficio e il danno (es. sovradiagnosi e trattamento eccessivo, o ansia basata su un’errata interpretazione dei risultati) di queste tecnologie in un contesto cardiovascolare.

( https://doi.org/10.1093/eurheartj/ehab243 Schnabel et al)

Covid. Per chi è guarito dose unica di vaccino preferibilmente entro 6 mesi e comunque non oltre i 12

Per i soggetti con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, in caso di pregressa infezione da Sars-CoV-2, resta valida la raccomandazione di proseguire con la schedula vaccinale completa prevista. Si torna a ribadire che, come da indicazioni dell’Oms, l’esecuzione di test sierologici, volti a individuare la risposta anticorpale nei confronti del virus, non è raccomandata ai fini del processo decisionale vaccinale   Leggi L’articolo completo al LINK

http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=97519&fr=n

L’obesità deve essere riconosciuta come vera e propria malattia

(da M.D.Digital)   Quando si parla di obesità la definizione corretta è quella di malattia cronica multifattoriale. Errato considerarla un semplice accumulo di chili di troppo, e che si tratti di una condizione che può essere gestita sotto il controllo dell’individuo (o che sfugge alla sua capacità di disciplinare il peso in eccesso). E in quanto vera e propria patologia va affrontata e gestita sotto il controllo medico.  L’obesità è un problema crescente nella maggior parte dei paesi, compresa l’Italia. Ed è associata ad un aumento del rischio di morbilità e mortalità a causa delle comorbilità associate, che rappresentano un problema critico per la salute pubblica. Le sue conseguenze hanno una dimensione importante che include effetti sulla salute e sulla qualità della vita, ma anche significativi impatti socioeconomici. Diversi studi hanno dimostrato che l’obesità – e le numerose comorbilità ad essa associate – danno luogo a maggiori costi sanitari diretti e indiretti, imponendo un onere significativo ai soggetti obesi.
“L’obesità deve essere considerata come una malattia cronica, a patogenesi multifattoriale, che necessita di cure e attenzioni adeguate. – afferma Paolo Sbraccia, Vice Presidente IBDO Foundation e Professore Ordinario di Medicina Interna dell’Università di Roma “Tor Vergata” – La gestione terapeutica è complessa e richiede un approccio multidimensionale. Le principali linee guida dell’obesità indicano che il primo passo della terapia è rappresentato dalla modificazione degli stili di vita attraverso l’intervento nutrizionale, l’incremento dell’attività fisica strutturata e le modifiche comportamentali. Tuttavia, quando questa prima strategia risulta insufficiente o del tutto inefficace è possibile ricorrere alla terapia farmacologica e in alcuni casi alla chirurgia bariatrica”,
Al congresso ECO-ICO 2020 sono stati presentati i dati dello studio internazionale ACTION IO (Awareness, Care, and Treatment In Obesity MaNagement – an International Observation), che ha coinvolto 11 paesi in cinque continenti, oltre 14.500 persone con obesità e quasi 2.800 operatori sanitari, con l’obiettivo di identificare le percezioni, le attitudini, i comportamenti e gli ostacoli per la cura dell’obesità e capire in che modo questi fattori influenzino la gestione dell’obesità.  Dalla survey è emerso che molte persone con obesità sottovalutano la gravità della loro malattia, per questo tendono a non cercare l’aiuto di cui hanno bisogno per perdere peso in maniera efficace o per la cura di complicazioni legate alla malattia.   Lo studio ha anche dimostrato l’urgenza di un intervento precoce: problemi di peso in giovane età (<20 anni) sono associati a una malattia più grave e rassegnazione. Il gruppo più giovane ha visto infatti una percentuale maggiore di obesità di classe II (23% vs 16%) e di classe III (18% vs 11%), rispetto a coloro che non hanno sviluppato obesità a esordio precoce.
Un altro dato emerso è che le principali raccomandazioni dei medici si concentrano sulla restrizione calorica e sull’attività fisica. Meno frequente il consiglio di seguire una dieta specifica (22%) o programmi di allenamento (34%) e raramente di ricorrere a farmaci su prescrizione (11%) o alla chirurgia bariatrica (10%). Poiché solo una minoranza di medici ritiene attualmente disponibili valide opzioni farmacologiche (25%) “è evidente la necessità di implementare le conoscenze sull’obesità di medici, governi, persone con obesità e opinione pubblica in generale, migliorando l’educazione relativa alle basi biologiche per far sì che venga riconosciuta come malattia cronica” conclude Paolo Sbraccia.
I dati presentati in occasione dell’European Congress on Obesity (ECO) 2021 hanno dimostrato l’efficacia dei nuovi trattamenti farmacologici, che nello studio STEP 1 hanno portato a una significativa perdita di peso che ha avuto un impatto positivo sul benessere delle persone e sulla loro capacità di svolgere attività fisiche quotidiane, come fare passeggiate e svolgere le loro routine quotidiane.
In merito alle nuove terapie è da segnalare la recente approvazione dell’Fda statunitense a semaglutide per la gestione cronica dell’obesità e del sovrappeso in soggetti adulti con almeno una condizione correlata al peso (come ipertensione arteriosa, diabete di tipo 2 o ipercolesterolemia), da utilizzare in aggiunta a un dieta ipocalorica e all’aumento dell’attività fisica. I risultati
(Sbraccia P, et al. Misperceptions and barriers to obesity management: Italian data from the ACTION-IO study. Eat Weight Disord 2021; 26: 817-828. doi: 10.1007/s40519-020-00907-6. )

Covid “Vaccinazione completa copre dall’infezione nell’88% dei casi, dal ricovero in ospedale nel 94,6%, in terapia intensiva nel 97,3% e dal decesso nel 95,8%”

I dati sono contenuti nell’ultimo rapporto sulla situazione della pandemia pubblicato dall’Iss che rileva una brusca salita di nuovi contagi nell’ultima settimana ascrivibili nella maggior parte dei casi a persone non vaccinate o vaccinate solo con la prima dose. Un altro effetto della campagna vaccinale è la diminuzione nell’età mediana dei casi di Covid, che nelle ultime due settimane è stata di 29 anni, dato che le categorie prioritarie per il vaccino sono state le fasce di età più avanzate.  Leggi L’articolo completo al LINK

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Allarme endocrinologi: “Con Covid aumenta il rischio di diabete anche in chi non è predisposto”

(da AdnKronos Salute)   Se è ormai dimostrato che soffrire di diabete aumenta di gran lunga il rischio di ammalarsi gravemente di Covid-19, sembra emergere sempre più nitida anche l’indicazione che l’infezione da Sars-CoV-2 possa favorire, e non solo in soggetti predisposti, lo sviluppo del diabete. Inoltre, tra i disturbi del long-Covid risultano molto diffusi anche problemi di controllo glicemico e resistenza all’insulina. Il diabete stesso potrebbe essere un effetto del long-Covid. E’ la possibilità avvalorata da diversi studi, presentata da Francesco Giorgino, presidente della Società italiana di endocrinologia (Sie) in occasione del 41° Congresso nazionale Sie che si tiene a Roma da oggi al 17 luglio.

“Dovremmo continuare a monitorare la possibilità di una correlazione tra l’infezione da nuovo coronavirus e il rischio di sviluppare alterazioni della glicemia anche una volta guariti”, afferma Giorgino “Diversi studi – spiega – hanno dimostrato che il coronavirus può infettare le cellule del pancreas, sia la porzione esocrina che produce gli enzimi digestivi, sia quella endocrina dell’organo che produce l’insulina. I pazienti Covid che prima dell’infezione avevano una glicemia normale presentano spesso un aumento dei valori della glicemia durante la malattia. Inoltre, alcuni lavori hanno evidenziato che i pazienti Covid hanno manifestato disturbi del controllo della glicemia anche dopo aver superato l’infezione da nuovo coronavirus. La tempesta delle citochine scatenata dall’infezione da nuovo coronavirus può favorire squilibri metabolici e alterazioni del controllo della glicemia”.

In particolare, uno studio condotto da Laura Montefusco e Paolo Fiorina della Divisione di Endocrinologia dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, pubblicato su ‘Nature Metabolism’, mostra che anche a distanza di mesi dalla guarigione da Covid molti pazienti presentano disturbi della glicemia. Lo studio ha seguito 551 pazienti precedentemente normoglicemici ricoverati per Covid-19 in Italia: durante l’infezione il 46% aveva una glicemia elevata che si era manifestata durante il ricovero, mentre il 27% era normoglicemico (glicemia normale). Gli scienziati hanno evidenziato nei pazienti alterazioni del controllo metabolico, con resistenza all’insulina e profilo anomalo delle citochine che favoriscono l’infiammazione, anche dopo il superamento dell’infezione. Anche le anomalie glicemiche possono essere osservate per almeno 2 mesi nei pazienti guariti da Covid. I dati, quindi, dimostrano che Covid-19 è associata a controllo metabolico aberrante, che può persistere dopo la guarigione dall’infezione.

ancora, uno studio sempre su ‘Nature Metabolism’, condotto da Matthias Laudes dell’Università Schleswig-Holstein di Kiel, in Germania, presenta il caso di un giovane paziente con infezione da Sars-CoV-2 asintomatica, che si è ammalato di diabete autoimmune o insulino-dipendente (diabete 1) proprio in concomitanza con l’infezione.

“Queste e numerose altre evidenze cliniche – rimarca Giorgino – suggeriscono la necessità di ulteriori indagini sulle anomalie metaboliche nel contesto del cosiddetto long-Covid. Sarebbe importante provare seguire nel tempo i soggetti guariti da Covid, ad esempio coloro che hanno manifestato alterazioni del controllo glicemico durante l’infezione, per vedere se le alterazioni della glicemia persistono a lungo termine e se questi soggetti sviluppano il diabete”.

“A tal proposito – conclude il presidente Sie – potrebbe risultare utile anche utilizzare strumenti di telemedicina per il monitoraggio a distanza: non solo le persone con diabete, ma anche i guariti da Covid con problemi glicemici persistenti potrebbero essere monitorati da remoto a lungo termine ed eventualmente seguiti con televisite”.

Medicina generale. Sospese le incompatibilità al corso di formazione specifica del triennio 2020-2023 e 2021- 2024.

Decreto del Ministero Salute. Ai medici che si iscriveranno al corso di formazione specifica del triennio 2020-2023 e del triennio 2021- 2024, è consentito mantenere gli incarichi convenzionali. Il decreto del Ministero della Salute è efficace a partire da ieri, 14 luglio      Leggi L’articolo completo al LINK
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Fibromialgia, individuate le cause nel sistema immunitario

(da DottNet)    Un potenziale passo avanti nella comprensione della fibromialgia, un disturbo caratterizzato da dolore, debolezza muscolare e affaticamento cronico che colpisce una persona su 40 nel mondo, nell’80% dei casi donne: si tratterebbe di un disturbo del sistema immunitario e non di natura nervosa, insomma sembra configurarsi come una malattia autoimmune come il diabete di tipo 1 o la tiroidite. Lo suggerisce uno studio condotto da esperti del King’s College di Londra e pubblicato sul Journal of Clinical Investigation, secondo cui iniettando in topolini gli anticorpi raccolti dal sangue di pazienti, i topolini iniziano a manifestare i sintomi della fibromialgia fin quando il loro organismo non si ripulisce dagli anticorpi iniettati. Tra I sintomi scatenati da questa ”trasfusione” di anticorpi gli esperti hanno rilevato una aumentata sensibilità al dolore, debolezza muscolare, riduzione dei movimenti.   Quando gli esperti hanno iniettato anticorpi di persone sane nessuno di questi sintomi è comparso nei topolini. La sintomatologia è stata simile in tutti i casi in cui gli anticorpi iniettati erano di pazienti, indipendentemente dalla loro provenienza geografica.  Questo dimostra che gli anticorpi mettono in atto reazioni deleterie per l’organismo che ora gli scienziati cercheranno di individuare. Nel frattempo, spiegano, poiché già esistono delle terapie per tenere a bada gli anticorpi in altre malattie autoimmuni, la speranza è che con questa scoperta si possa accelerare lo sviluppo di nuove cure per la fibromialgia

Per medici e odontoiatri iscritti all’Enpam c’è una Cu dedicata a quello che non si deve pagare

Per medici e odontoiatri iscritti all’Enpam c’è una Cu dedicata a quello che non si deve pagare. Una certificazione unica che riguarda esclusivamente i sussidi ricevuti dalla Fondazione nel 2020 come sostegno alle difficoltà imposte dal Covid-19, che dopo una lunga battaglia dell’Enpam sono stati detassati.

Nello specifico, si parla dell’indennizzo statale, del Bonus Enpam o Bonus Enpam plus e dell’indennità di quarantena. Tutti aiuti economici che non concorrono alla formazione del reddito, per i quali la Fondazione ha emesso una nuova ondata di certificazioni uniche.

I camici bianchi possono trovare nella loro area riservata del sito dell’Enpam la Cu prodotta ad hoc, che attesta esclusivamente le somme corrisposte lo scorso anno dalla Fondazione a titolo di bonus Covid-19 e che si va ad aggiungere alla certificazione unica già presente dal 31 marzo scorso.

NON PAGARE, MA (IN ALCUNI CASI) DICHIARARE

Partiamo da quello che è certo: nessuno deve pagare sugli importi indicati nella nuova Cu.

Ma in alcuni casi, i bonus ricevuti come sostegno per i mesi “caldi” del Covid dovranno essere comunque riportati nella dichiarazione. Questo anche per evitare di incorrere in una sanzione amministrativa che si rischia con l’omessa indicazione.

Ad esempio è il caso dei professionisti che esercitano con partita Iva soggetta a regime dei minimi o forfettario, a cui è richiesta “l’indicazione dell’ammontare ‘dei contributi e delle indennità di qualsiasi natura, erogati in via eccezionale’ per il Covid e diversi da quelli preesistenti”, come riporta il Sole 24 Ore dello scorso 14 giugno, in un articolo dal titolo eloquente: “Sostegni Covid e Fisco: caccia al posto giusto in dichiarazione”.

In termini pratici, per risolvere la problematica dell’eventuale collocazione dei sostegni nella dichiarazione dei redditi, è bene trasmettere al proprio commercialista anche la nuova Cu dedicata ai sussidi 2020, che come detto è possibile trovare nell’area riservata del sito Enpam.

LA FINE DELLA “TASSA SULLA SOLIDARIETÀ”

Quella “tassa sulla solidarietà” che veniva applicata in un primo momento ai camici bianchi, come accennato, è stata abolita dopo una lunga battaglia dell’Enpam.

È cronaca del 2020 il fronte mediatico e istituzionale aperto dalla Fondazione, per ottenere la revoca dell’ingiusto prelievo a danno dei propri iscritti. Un’azione a tutela di medici e dentisti che si vedevano alleggerire da un’ulteriore tassazione i sussidi ricevuti dall’Enpam per attraversare i disagi imposti dalla pandemia.

L’Enpam aveva dovuto inizialmente applicare una ritenuta alla fonte dei sussidi erogati. Importi poi versati ai legittimi destinatari, medici e odontoiatri, una volta arrivata la schiarita da parte dello Stato. La battaglia portata avanti dalla Fondazione, com’è noto, è stata vinta alla vigilia dello scorso Natale.

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