Disforia di genere, pazienti Invisibili anche per il loro medico. Necessaria più formazione

(da DottNet)   In Italia, alcune persone con disforia di genere hanno uno scarso accesso alle cure. Sono persone che vanno raramente dal medico curante o accedono di rado a visite specialistiche di qualsiasi genere per timore o imbarazzo, trascurando la loro condizione di salute generale. A dare l’allarme gli endocrinologi AME che dal 2014 ha costituito un gruppo di lavoro interdisciplinare dedicato.  “Un complesso fenomeno che nell’ultimo periodo ha destato molto interesse mediatico ma che resta sconosciuto ai più, per questo è importante fare cultura e creare consapevolezza, iniziando proprio dalla classe medica e sanitaria” spiega Stefania Bonadonna, endocrinologo, coordinatore del gruppo di lavoro dell’AME (Associazione Medici Endocrinologi) sulla disforia di genere. In questi tempi si è sentito tanto parlare di omotransfobia e disforia di genere in quanto relativo alle tematiche portate in discussione dal DDL Zan, ma non esiste una adeguata formazione in merito ai concetti e alle situazioni che questi termini rappresentano.  Disforia, transgender, che significa? Nell’immaginario collettivo, l’identità di genere è concepita come un sistema binario che vede contrapposti il genere maschile e quello femminile. A introdurci è Antonio Prunas psicologo esperto di disforia di genere. In realtà, l’identità di genere può essere immaginata come uno spettro in cui agli estremi si collocano il maschile e il femminile e, tra questi due poli, un’infinita varietà di possibili identità ed espressioni di genere. In un sistema non binario, sono possibili contaminazioni tra i generi, oscillazioni o movimenti fluidi tra i generi o l’appartenenza a nessun genere. Su questa base concettuale, nascono le definizioni di Cisgender (una persona sente di appartenere al genere assegnato alla nascita), e transgender, che sono le persone in cui il genere cui sentono di appartenere non coincide con quello assegnato loro alla nascita.

Cosa si intende invece per disforia di genere? In alcuni casi, la persona può vivere un’incongruenza tra il genere assegnatole alla nascita e quello in cui invece si identifica. Questo senso di incongruenza può comportare un disagio significativo che non permette alla persona di vivere una vita pienamente soddisfacente: si parla allora di disforia di genere. Immaginiamo ad esempio una persona assegnata maschio alla nascita che si percepisca invece come soggetto femmina e che presenta disagio e sofferenza verso il proprio corpo. Il superamento di questa incongruenza avviene attraverso un percorso psicologico di consapevolezza del sé  e spesso attraverso interventi medici affermativi di genere che possono includere terapie ormonali e/o chirurgiche. Purtroppo i medici formati a questi trattamenti sono ancora troppo pochi in Italia.   I numeri. In Italia esistono solo cartelle cliniche e certificati di morte binari e non esistono dati epidemiologici, spiega Bonadonna.  Sulla base di studi internazionali che parlano di una popolazione compresa tra 0.5 e 2.8,%, in Italia, per 60 milioni di residenti si può pensare ad un numero compreso tra 240.000 e 1.696.000, in continua crescita.

Non più malattia mentale da gennaio 2022. Sentirsi uomo o donna a prescindere dal proprio corpo non verrà più considerata come una malattia mentale. Infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha appena trasferito la disforia di genere dall’elenco delle malattie mentali a quello molto generico dei disturbi della salute sessuale. È questo uno dei tanti storici aggiornamenti voluti dall’OMS nella sua nuova e undicesima versione dell’International Statistical Classification of Diseases anche Related Health Problems (ICD-11), l’elenco che racchiude tutte le patologie e le condizioni di salute. Dice ancora Bonadonna: “E’ un passaggio fondamentale. La declassificazione quale malattia mentale dovrà contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione verso le persone transgender e migliorare l’accesso alle cure.”

Vaccini Moderna e Pfizer: protezione per anni dal covid

(da DottNet)    I vaccini anti Covid con prodotti scudo a mRna, come Pfizer e Moderna, sembrano in grado di indurre “una risposta persistente delle cellule B del centro germinativo, che consente la generazione di una robusta immunità umorale”. E’ quanto scrive un team di scienziati della Washington University School of Medicine di St Louis, negli Usa, in uno studio pubblicato su ‘Nature’ e accolto con entusiasmo dalla comunità scientifica. Tradotto in parole povere, il messaggio degli autori del lavoro è che la reazione suscitata da questi vaccini nell’organismo potrebbe proteggere per anni contro il coronavirus Sars-CoV-2, se questo patogeno con le sue varianti non si evolverà molto oltre la sua forma di oggi.   E quindi, come evidenziato anche da scienziati italiani, come l’immunologo Mario Clerici, “non è detto che serviranno richiami del vaccino Covid ogni anno”. Gli autori dello studio, che è rimbalzato sulla stampa internazionale, hanno esaminato le risposte delle cellule B specifiche per l’antigene sia nel sangue periferico che nei linfonodi drenanti di 14 persone vaccinate con due dosi di Pfizer. Quello che hanno scoperto è che la risposta che si genera appare essere persistente. E’ come se la vaccinazione ci dotasse di ‘fabbriche’ di plasmacellule e cellule B durature. La pubblicazione su ‘Nature’ di questo lavoro è una conferma alle aspettative che hanno coltivato diversi scienziati sulla base anche di altri dati emersi da precedenti studi.   Secondo quanto riporta il New York Times, una delle autrici, l’immunologa Ali Ellebedy, definisce quanto osservato nell’analisi appena pubblicata “un buon segno di quanto duratura sia l’immunità indotta da questi vaccini”. “I dati” di questo studio, commenta all’Adnkronos Salute Clerici, che è docente dell’università degli Studi di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, “confermano che dal punto di vista immunologico non vi è nulla di peculiare riguardo a questo virus”.    “L’aspettativa è che la risposta indotta dai vaccini possa durare molto a lungo”, prosegue Clerici. L’esperto, proprio parlando delle evidenze che si stavano accumulando sulla memoria immunologica, aveva usato un esempio per rendere l’idea del meccanismo che potrebbe attivarsi nel nostro organismo: “E’ come se noi avessimo un cannone che spara i suoi proiettili solo se c’è il virus. In sua assenza questo cannone se ne sta lì pronto e quando il virus si dovesse ripresentare avrebbe il macchinario per produrli”. Clerici cita anche un altro lavoro pubblicato, che ci dice come “la risposta immune indotta da vaccini per Sars-CoV-2 (nelle scimmie) protegga anche contro altri coronavirus”.

Centoventotto nuove droghe in giro per il paese, secondo l’ISS

(da Univadis)   La pandemia da Covid sembra aver favorito la creatività dei trafficanti di sostanze psicoattive: secondo il Sistema Nazionale di Allerta Precoce (SNAP), gestito dal Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità, sono oggi in circolazione ben 128 nuove sostanze psicoattive in più rispetto al 2019. I dati sono stati diffusi il 26 giugno, in occasione della Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droga istituita dall’ONU. Le nuove sostanze individuate in Italia e in altri paesi europei appartengono principalmente alla classe dei catinoni, degli oppioidi sintetici e dei cannabinoidi.

Minacce non controllate   La definizione di nuova droga si applica alle sostanze non sottoposte ai controlli ai sensi delle convenzioni delle Nazioni Unite sul controllo delle droghe, ma che possono comportare analoghe minacce per la salute, e sono spesso vendute come sostituti “legali” delle droghe illegali, sebbene alcune siano anche utilizzate da un numero limitato di persone che desiderano sperimentarle esplorando nuove esperienze ed effetti.   Le novità non hanno però scalzato dal mercato illegale le sostanze classiche, da tetraidrocannabinolo (THC) e cannabidiolo (CBD) a eroina, morfina, cocaina, amfetamina, MDMA e LSD. I sequestri di ketamina, un anestetico dissociativo, hanno registrato un notevole incremento. Nel primo semestre post lock down si è registrato raddoppio delle segnalazioni di nuove sostanze psicoattive (in sigla NPS), rispetto al periodo precedente.   Due sostanze hanno fatto la prima apparizione sul continente europeo proprio in Italia: un oppioide sintetico analogo del fentanil e una nuova sostanza appartenente alla classe dei cannabinoidi sintetici.

Segnalazioni dai medici   “La velocità di risposta sistema di allerta SNAP è un fattore determinante per mettere a punto una procedura che permetta di reagire subito alla comparsa e alla diffusione di nuove sostanze” ha spiegato Roberta Pacifici, che dirige il Centro Nazionale Dipendenze e Doping.   Un ruolo-chiave è svolto dai Servizi per le Dipendenze, delle strutture di emergenza, delle unità mobili, delle comunità terapeutiche e, più in generale, dalle organizzazioni del privato sociale: “Un lavoro indispensabile a tutela della salute, poiché individuare nuove sostanze psicoattive non presenti nell’elenco delle sostanze stupefacenti significa prendere misure di sicurezza per prevenire intossicazioni e decessi, causati direttamente dalle stesse o da prodotti che le contengono” ha commentato Simona Pichini responsabile dell’Unità di farmatossicologia dell’Istituto Superiore di Sanità.  Molte delle risposte sociosanitarie alle nuove sostanze costituiscono adattamenti dei programmi per le sostanze stupefacenti classiche: “Di norma – spiega il sito del Centro europeo di monitoraggio sulle droghe e la tossicodipendenza, “le iniziative in questo campo sono mirate a categorie specifiche di persone esposte al problema. La tipologia di tali categorie, che varia a seconda del paese, può includere i consumatori di stimolanti ricreativi, gli psiconauti, le persone che associano comportamenti sessuali a rischio all’abuso di sostanze, le persone che si rifiutano di sottoporsi ai test antidroga e i consumatori di stupefacenti ad alto rischio. Molti paesi hanno inoltre intensificato gli interventi normativi imponendo restrizioni sulla disponibilità di queste sostanze.”  Il monitoraggio sistematico è alla base dell’aggiornamento delle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti e psicotrope, quando vengono modificate le liste delle sostanze classificatea livello internazionale come tali oppure quando una sostanza diventa oggetto di abuso, se qualche nuova droga viene immessa nel mercato clandestino o, infine, quando viene registrato un nuovo medicinale ad azione stupefacente o psicotropa.

Le conseguenze della pandemia sui dentisti europei

(da Odontoiatria33)    Fin dai primi giorni di pandemia il Consiglio europeo dei dentisti (CED) presieduto dell’italiano Marco Landi ha seguito l’evolversi della situazione attraverso sondaggi, anche settimanali, per monitorare la situazione dell’odontoiatria europea, capire le criticità che man mano emergevano, le diverse situazioni ed iniziative approntate nei singoli Paesi per poter proporre interventi a sostengo degli operatori. Ora il CED riassume i dati di questi 20 sondaggi un documento che diventa l’unico lavoro fino ad oggi pubblicato che permette di capire il reale impatto che la pandemia ha avuto sugli studi dentistici europei, le sfide affrontate dalla professione.  Il corposo dossier è stato presentato venerdì scorso durante il General Meeting CED riscontrando entusiasti apprezzamenti da parte dei delegati presenti in rappresentanza delle Associazioni di 30 paesi. Delegati che hanno riconosciuto al CED ed al presidente Landi, la qualità dell’enorme lavoro svolto e la valenza del materiale prodotto, unico nel panorama europeo di tutte le professioni sanitarie.  “Il documento non è solo una fotografia di questo anno e mezzo di pandemia – dice ad Odontoiatria33 Marco Landi – ma anche un documento in cui analizziamo e valutiamo la situazione indicando possibili soluzioni utili per il futuro”.     Da marzo 2020 ad aprile 2021, il CED ha dedicato notevole attenzione alla crisi che ha investito la salute pubblica, al fine di comprendere l’impatto sulla salute orale e sull’odontoiatria e di garantire che il settore sia in grado di riprendersi e continuare a rispondere alle esigenze dei pazienti.  In questo periodo, la fornitura di cure dentistiche è stata limitata alle emergenze e le cure di routine sono state ridotte o sospese nel 67% sino al 100% dei casi. Oltre il 58% degli intervistati ha segnalato carenze e mancanza di accesso ad attrezzature adeguate, come maschere, occhiali, camici chirurgici e visiere, da aprile a giugno 2020. Inoltre, diversi paesi hanno segnalato un aumento dei costi associati al controllo delle infezioni e hanno esortato a inserire i dentisti nei gruppi prioritari di vaccinazione.   “Dopo un anno intero di convivenza con la pandemia, è possibile affermare che l’odontoiatria è una parte essenziale dell’assistenza sanitaria e questo lo abbiamo ribadito con forza in tutte le sedi istituzionali europee”, sottolinea il presidente Landi.  Durante la seconda e la terza ondata molti studi in tutta Europa sono riusciti a rimanere aperti nonostante gli ulteriori blocchi perché i dati hanno mostrato che negli studi dentistici non si correvano ulteriori rischi di infezione.  In oltre il 77% dei casi le Associazioni dentistiche nazionali non hanno riportato un aumento del tasso di infezione dei dentisti; inoltre, la maggior parte delle infezioni da COVID-19 non ha avuto origine da ambienti professionali, come riportato dagli intervistati.  Le statistiche sulle infezioni dentali raccolte dalle indagini CED mostrano l’incidenza notevolmente bassa di COVID-19 negli studi dentistici, il che consente di concludere che non sembra esserci un grave pericolo di essere esposti a COVID-19 negli ambienti odontoiatrici, in particolare perché la pandemia sta rallentando.

I punti cardine che emergono dalla serie di indagini, e da altri lavori correlati del CED, sono:

– le prove dimostrano che l’erogazione delle prestazioni odontoiatriche in tempi di pandemia è sicura per i pazienti, il team odontoiatrico e gli stessi dentisti. Gli efficaci protocolli di sicurezza e di controllo delle infezioni nelle strutture odontoiatriche prevengono eventuali rischi di infezione;

– è della massima importanza che gli studi dentistici abbiano sempre accesso a dispositivi di protezione individuale (DPI) adeguati. In queste circostanze, è fondamentale che il prezzo dei DPI non costituisca un onere finanziario aggiuntivo e che siano disponibili attrezzature sufficienti per consentire ai dentisti di svolgere la loro attività in totale sicurezza;

– è essenziale che le minacce sanitarie transfrontaliere non interrompano la continuità della fornitura delle cure dentistiche. L’igiene orale, compresi i controlli di routine, la pulizia e la prevenzione delle patologie della bocca rientrano in un’assistenza sanitaria essenziale. Il rinvio dei trattamenti odontoiatrici ha un impatto negativo sulla salute orale e generale dei pazienti;

– è fondamentale che i dentisti ricevano il sostegno del governo in casi straordinari di interruzione del lavoro, come pandemie e altre gravi minacce per la salute, a causa del significativo potenziale onere economico;

– i dentisti sono operatori sanitari essenziali ed è fondamentale che abbiano la priorità, insieme ad altri, nel ricevere il vaccino COVID-19;

– il CED incoraggia i dentisti a farsi vaccinare; altresì, i dentisti hanno un ruolo chiave nel promuovere la vaccinazione contro il COVID-19 tra il grande pubblico.  

Troppo tempo davanti allo schermo aumenta il disagio mentale

(da M.D.Digital)  Secondo una recente ricerca l’aumento del tempo trascorso davanti allo schermo, soprattutto quello trascorso con programmi per intrattenimento, durante la pandemia è risultato correlato a un aumento del disagio mentale. I risultati della ricerca verranno presentati al World Microbe Forum, che si terrà online dal 20 al 24 giugno.  Questo studio, commenta una delle autrici dello studio, evidenzia che la pandemia non ha semplicemente colpito le persone fisicamente, ma ha determinato forti impatti anche a livello emotivo e mentale. E che i dati sottolineano la necessità di un maggiore supporto per la salute mentale durante i periodi di calamità.   Quasi la metà dei partecipanti (studenti di età compresa tra 18 e 28 anni) ha mostrato una depressione da lieve a moderata, con oltre il 70% che andava da una depressione lieve a una grave. Il 70% dei partecipanti ha manifestato ansia da lieve a grave e poco più del 30% potrebbe potenzialmente soddisfare i criteri del DSM-IV-TR per il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). L’uso del tempo trascorso davanti schermo non è risultato diverso tra i sessi.   Lo studio, che ha raccolto dati da più Paesi, è unico nell’aver valutato lo stato di salute mentale in funzione del tempo trascorso davanti allo schermo, ha affermato ancora l’autrice. Dal momento che la pandemia ha spostato il lavoro e l’istruzione online, era importante ottenere maggiori informazioni sull’impatto di tale transizione. E sono così emersi risultati inaspettati, che potenzialmente aprono la strada a ricerche future e vari fattori protettivi, che possono essere vitali per mantenere una persona sana durante tempi difficili come quelli che hanno caratterizzato la pandemia mondiale.

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