Abolire il numero chiuso a Medicina?

(da Univadis – Roberta Villa)   Se per un qualunque problema si intravede una possibile soluzione che sembra a prima vista a costo zero, spesso la politica non perde tempo e la adotta senza preoccuparsi se e quanto efficace possa essere, e nemmeno se e quanti finanziamenti di fatto richieda, al di là delle apparenze.   È il caso dell’abolizione del numero chiuso per entrare a Medicina, vista come una risposta facile ed economica alla carenza di medici, di cui abbiamo ripetutamente parlato in questa rubrica: da un lato quelli di famiglia, che vanno in pensione a frotte senza che vi sia un possibile ricambio, per cui larghe aree del Paese stanno rimanendo, o sono già rimaste, private dell’assistenza sanitaria di base; dall’altro gli anestesisti e rianimatori, i medici di pronto soccorso e tutti quelli assegnati alle varie funzioni dell’emergenza e urgenza, che dopo i salti mortali fatti durante la pandemia, privi di riconoscimento sociale ed economico, messi a fronteggiare con turni insostenibili la marea montante che viene dal territorio rimasto sguarnito, appena possono abbandonano il campo, per cercare una diversa collocazione.

Detto questo, è proprio vero che in Italia mancano medici? Come al solito, è bene partire dai dati: e questi, in particolare quelli di Eurostat (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Health_statistics_at_regional_level#Health_care_personnel_and_health_care_facilities),ci dicono che non è proprio così. Nel 2019 ne avevamo 405 ogni 100.000 abitanti, già in aumento rispetto ai 395 del 2016, e comunque sopra la media europea, che è di circa 390 ogni 100.000 abitanti. Il record è della Grecia, con 616, ma anche Portogallo e Austria ne hanno più di 500. Tra i grandi Paesi dell’Europa occidentale, poco sopra di noi ci sono Spagna e Germania, intorno ai 440, ma la Francia e il Belgio, al contrario, sono parecchio al di sotto. E come fanno? Difficile rispondere in poche righe, ma la prima ipotesi a cui si può pensare è che la loro organizzazione del lavoro sia più efficiente. Che ai medici siano risparmiati i compiti burocratici, che possono essere svolti da personale amministrativo; che un maggior numero di infermieri specializzati e pagati adeguatamente possa svolgere una serie di attività che in Italia sono ancora appannaggio del medico. Sul territorio la medicina di gruppo aiuta molto a ottimizzare questo genere di risorse, e forse anche negli ospedali si potrebbero studiare modelli più funzionali.

Ma il vero ostacolo, la barriera che impedisce a tanti giovani e meno giovani colleghi di accedere al mondo del lavoro e a uscire dal precariato è quella della scuola di specializzazione, condizione quasi indispensabile per poter esercitare.   Non sono i medici che mancano, ma gli specialisti, e in particolare alcuni specialisti, come appunto anestesisti rianimatori o medici di pronto soccorso. Eppure i concorsi per queste figure professionali spesso vanno a vuoto. Qualcuno che si chiede perché? A questi medici si chiede molto di più, in termini di impegno, di fatica, di stress, senza una sufficiente differenza di trattamento economico e di altro tipo rispetto ad altri colleghi che possono conciliare molto più facilmente lavoro e vita privata. È abbastanza comprensibile che non ci sia la coda. Forse occorrerebbero maggiori incentivi, e magari, anche qui, potrebbero essere più logistici che esclusivamente economici.

Sappiamo che ci sono stati anche errori di programmazione in passato ma oggi che sappiamo di cosa abbiamo bisogno, si fa di meglio? Per l’accesso alle scuole di specialità non basta una norma, ma ci vogliono i fondi per pagare le borse di studio. Anche spalancare gli accessi al primo anno, bisognerebbe far sapere ai politici, richiederebbero docenti, aule, strutture in più. Ma soprattutto, visto che l’imbuto è a valle, significa aumentare il numero di coloro che tra un po’, dopo sei anni di sacrifici, si ritroveranno a combattere per entrare in specialità. Già molti ragazzi lamentano il clima di competizione che si vive in facoltà. Più saranno, più questo peggiorerà. E, col sistema della classifica nazionale, sempre di più finiranno a doversi accontentare di una strada che non fa per loro, aumentando così anche le probabilità che diventino professionisti peggiori di quelli che potrebbero essere.

Ambiente, l’inquinamento può provocare infarto anche a coronarie sane.

(da Doctor33)   L’aria inquinata può causare infarto anche a chi ha coronarie ‘pulite’, cioè senza aterosclerosi significativa, determinando uno spasmo prolungato dei vasi. È quanto dimostra, per la prima volta, uno studio firmato da Rocco Antonio Montone e da Filippo Crea, cardiologi della Fondazione Policlinico Agostino Gemelli Irccs-Università Cattolica, campus di Roma appena presentato al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) a Barcellona e pubblicato in contemporanea su JACC, rivista ufficiale dei cardiologi americani (American College of Cardiology). «Questo studio dimostra per la prima volta – dichiara Montone, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Terapia intensiva cardiologica del Gemelli Irccs – un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (Pm2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche».
«Abbiamo studiato il fenomeno – spiega Montone, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Terapia intensiva cardiologica del Gemelli Irccs – su 287 pazienti di entrambi i sessi di età media 62 anni; il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie ‘sane’ (i cosiddetti Inoca), mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane (Minoca). La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test ‘provocativo’ all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti; la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se anche fumatori e dislipidemici». «Gli spasmi dei vasi del cuore – spiega Massimiliano Camilli, dottorando di ricerca all’Istituto di Cardiologia dell’università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma – potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio, lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi».
«Alla luce dei risultati di questo lavoro – ha concluso Crea, ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica, campus di Roma e direttore dell’Uoc di Cardiologia del policlinico Gemelli – limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale, possibilmente riducendone le emissioni, potrebbe ridurre il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie». Crea raccomanda, dunque, l’utilizzo «di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città – continua l’esperto – potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città».

L’età della menopausa importante per la valutazione del rischio cardiaco

(da Univadis)   Le donne che vanno in menopausa prima dei 40 anni, ma anche quelle con un’età alla menopausa inferiore ai 45 anni, potrebbero avere un rischio aumentato di scompenso cardiaco e fibrillazione atriale.  Il rischio aumenta al diminuire dell’età della menopausa.  Quando si deve valutare il rischio di queste due condizioni, è necessario tenere conto della storia riproduttiva.  

Tra le donne in post-menopausa, quelle con una storia di menopausa prematura, e cioè avvenuta prima dei 40 anni di età, hanno un rischio più alto di scompenso cardiaco del 33% e di fibrillazione atriale del 9%. Anche la menopausa precoce, prima dei 45 anni, si associa a un aumento di rischio. Sono, in sintesi, i risultati di uno studio coreano pubblicato su European Heart Journal che mostra l’importanza della durata dell’esposizione agli estrogeni per la salute cardiaca.   “Le donne in pre-menopausa traggano beneficio dall’effetto protettivo degli estrogeni sul sistema cardiovascolare” scrivono gli autori precisando che, prima del loro studio, era ancora poco chiara l’associazione eziologica tra scompenso, fibrillazione atriale e menopausa prematura. Hanno così deciso di analizzare la situazione nella popolazione asiatica, in particolare nelle donne in Corea, anche perché la maggior parte degli studi precedenti erano stati condotti nei paesi occidentali.   Grazie all’uso di un database del sistema sanitario nazionale coreano, sono state coinvolte più di 1,4 milioni di donne in post-menopausa, il 2% delle quali aveva una storia di menopausa prematura, con un’età media alla menopausa di 36,7 anni. In un follow-up medio di 9,1 anni, il 3% (42.699) è andato incontro a scompenso e il 3.2% (44.834) a fibrillazione atriale. L’incidenza di entrambe le condizioni è maggiore nelle donne con una storia di menopausa rispetto a quelle senza. In un’analisi aggiustata per diverse variabili confondenti, tra cui alcune condizioni di salute (ipertensione, diabete di tipo 2, malattia renale cronica e altre), le donne che sono andate in menopausa prima dei 40 anni hanno, rispetto alle altre, un rischio più elevato del 33% per lo scompenso e del 9% per la fibrillazione atriale.

Rispetto a chi aveva almeno 50 anni al momento della menopausa, le donne di 45−49, 40−44 e meno di 40 anni alla menopausa hanno un rischio più alto pari a 11% e 4%, 23% e 10%, 39% e 11%. Dall’analisi dei sottogruppi emerge che l’associazione tra la menopausa prematura e il rischio di fibrillazione atriale è più forte nel gruppo con meno di 65 anni, nelle donne che non hanno mai fumato e in quelle obese.  Per gli autori quindi, nella valutazione del rischio bisognerebbe considerare, oltre cai tradizionali fattori di rischio, anche la storia ginecologica, così da poter stabilire strategie preventive e terapeutiche.  Inoltre, spiegano che esistono diversi meccanismi che potrebbero spiegare l’associazione osservata. Gli estrogeni potrebbero non essere gli unici colpevoli, come fa notare un editoriale correlato.

(Shin J, Han K et al. Age at menopause and risk of heart failure and atrial fibrillation: a nationwide cohort study Get access Arrow. European Heart Journal 2022. Doi: 10.1093/eurheartj/ehac364.    Torbati T, Shufelt C et al. Premature menopause and cardiovascular disease: can we blame estrogen?  European Heart Journal 2022. Doi: 10.1093/eurheartj/ehac321.)

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