Da una cartella clinica incompleta derivano grandi responsabilità

(da Univadis – Benedetta Pagni)   Un team di ricercatori italiani ha pubblicato su ‘International Journal for Quality in Health Care’ i risultati di uno studio, suggerendo che una corretta compilazione e un’adeguata completezza delle cartelle cliniche (CC) apporti benefici al paziente e alla sua sicurezza, limitando il numero di effetti avversi (EA) negativi.

Perché è importante lo studio      Le CC e in particolare la loro completezza nel contenere i dettagli del paziente possono essere utilizzate come indicatore della qualità dell’assistenza erogata e offrire indizi per migliorare la pratica professionale.    Le CC sono considerate la principale fonte per identificare gli EA.   Gli EA che si verificano durante il ricovero possono portare a disabilità momentanea o permanente e/o alla morte del paziente, oltre che a una spesa per il sistema sanitario.

Come è stato condotto lo studio     Sono state esaminate retrospettivamente le CC di pazienti dismessi dell’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, prendendo in considerazione principalmente i reparti di chirurgia generale, medicina interna e ostetricia tra luglio e settembre 2020.    La valutazione è stata effettuata utilizzando il “Global Trigger Tool” (GTT) e una checklist per valutare la completezza delle CC. La relazione tra l’insorgenza di EA e la completezza delle CC è stata analizzata utilizzando test non parametrici. Il GTT è stato promosso dal Institute for Healthcare Improvement e si basa sul metodo del trigger tool, ossia su una revisione retrospettiva di un campione casuale di CC alla ricerca di fattori scatenanti (trigger) per identificare potenziali EA correlati alla cura e alla gestione del paziente.   L’outcome primario dello studio è stata la stima della prevalenza degli EA, mentre il secondario era determinare la completezza delle CC ed esaminare la relazione tra le due variabili.

Risultati principali

– Dai risultati dello studio italiano emerge che la completezza delle CC favorisce una maggiore sicurezza dei pazienti e indicando la necessità di una formazione continua e il coinvolgimento degli operatori sanitari per mantenere l’aderenza alle CC.

– Sono state riesaminate 291 CC (età media 60.3 anni, 68.3% donne), identificati 368 fattori scatenanti suddivisi in tre macrocategorie (assistenza, trattamenti, questioni emergenziali) e i più comuni sono stati: riammissione entro 30 giorni, tempo al pronto soccorso > 6 ore, eccessiva sedazione/ipotensione e diminuzione di emoglobina/ematocrito ≥ 25%.

– In base ai fattori scatenanti sono stati identificati 56 EA, classificati in 4 categorie: lesioni chirurgiche con 24 EA (42,6%), legati all’assistenza con 15 EA (26,8%), infezione acquisita in ospedale con 8 EA (16,1%) e altro con 8 EA (14,3%). Il reparto con il tasso più alto di EA è quello di chirurgia generale (28 EA), seguito da medicina interna (20 EA) e ostetricia (8 EA). Il 16,2% dei ricoveri è stato interessato da almeno un EA, con una percentuale più alta in chirurgia generale.

– È stata riscontrata una correlazione positiva significativa tra la durata della degenza e il numero di EA. La completezza media delle CC era del 72,9% ed era più bassa in chirurgia generale. La diminuzione della completezza delle CC è stata correlata all’aumento del numero totale di EA (R = -0,14; P = .017), sebbene ciò non sia stato confermato dall’analisi di regressione per singoli reparti.

(https://academic.oup.com/intqhc/article-abstract/35/4/mzad094/7408629?redirectedFrom=fulltext)

Gli ipocondriaci rischiano di morire 5 anni prima

(da AGI)   Coloro che sono perennemente preoccupati di sviluppare una malattia mortale hanno maggiori probabilità di morire prima degli altri. È questo quanto emerge da uno studio pubblicato su ‘JAMA Psychiatry’. Ricercatori in Svezia hanno studiato gli esiti sulla salute del disturbo d’ansia chiamato ipocondria caratterizzato appunto da eccessiva paura delle malattie. Da non confondersi con il semplice timore delle malattie, chi soffre di ipocondria vede la propria vita quotidiana sconvolta dall’ansia e interpreta quasi ogni normale sensazione corporea come un segno di patologia.

Gli scienziati del Karolinska Institutet hanno monitorato 42.000 persone nell’arco di vent’anni, di cui 1.000 affette da questa patologia, e hanno scoperto che coloro che erano afflitti da ipocondria vivevano tendenzialmente cinque anni in meno. I risultati hanno mostrato che i pazienti che hanno sperimentato il fenomeno hanno vissuto in media fino a 70 anni, mentre quelli che hanno condotto una vita normale hanno vissuto fino a 75 anni.

I pazienti con ipocondria avevano anche una probabilità quasi quattro volte maggiore di morire per suicidio e avevano un rischio più elevato di morte per malattie respiratorie come influenza e Covid, così come problemi circolatori o neurologici. I ricercatori hanno affermato che il collegamento non può essere spiegato con la “paura della scoperta” – quella situazione in cui le persone sono così preoccupate di ammalarsi che evitano di andare dal medico, rischiando diagnosi ritardate.

Invece, hanno affermato che il perpetuo stato di preoccupazione – che può essere innescato da sensazioni normali come sudorazione o gonfiore – porta ad uno stato di stress cronico, una causa nota di problemi di salute fisica. Lo stress e l’ansia possono innescare il rilascio di sostanze chimiche che provocano un aumento dei livelli di infiammazione in tutto il corpo. Diversi studi hanno collegato l’infiammazione a lungo termine a una serie di problemi, tra cui un sistema immunitario indebolito, che rende il corpo meno capace di combattere infezioni e malattie.

È anche possibile che l’accresciuta consapevolezza della malattia sia radicata in problemi di salute sottostanti, che potrebbero esporre i malati a un rischio di morte più elevato. I ricercatori hanno anche notato che era importante affermare che questi pazienti non erano a rischio più elevato di decessi correlati al cancro. Per lo studio, i ricercatori hanno estratto i dati dal registro nazionale dei pazienti svedese, che contiene statistiche sulle malattie di tutti i pazienti in Svezia.

Una ricerca del set di dati dal 1997 al 2020 ha rivelato che a 1.000 pazienti era stata precedentemente diagnosticata l’ipocondria. Questi sono stati abbinati a 41.000 pazienti che erano simili per età, sesso e vivevano nello stesso paese. Gli scienziati hanno poi esaminato i dati di entrambi i gruppi per due decenni per determinare il rischio di morte o malattie. La maggior parte dei pazienti affetti da ipocondria (57 per cento) erano donne e quasi tutti presentavano un altro disturbo d’ansia (78 per cento).

Il “Dry January” prende piede in Francia, dopo UK e Scandinavia

(da DottNet)  Torna il “Dry January”, il mese di detox dall’alcol nel mese che segue il Capodanno. In Francia si ripete per il quinto annno consecutivo ed a invitare a non bere alcol per un mese sono una sessantina di organizzazioni che tuttavia lamentano la persistente assenza di sostegno da parte dello stato francese, in questa iniziativa che si ispira a precedenti esperienze nel mondo anglosassone e in Scandinavia.   

La pausa dal bere alcolici arriva a gennaio, periodo appropriato dopo gli eccessi delle ricorrenze di fine anno. “Questo tipo di campagna – secondo i promotori – sta dimostrando sempre più il suo valore in termini di salute pubblica. Invece di enfatizzare i rischi rappresentati da una sostanza – in questo caso l’alcol – enfatizziamo i vantaggi di rallentarne il consumo.

I partecipanti sono stimolati anche da una sfida che riunisce più persone contemporaneamente”. Ma l’obiettivo, sottolineano gli organizzatori, non è soltanto mettere a riposo il proprio corpo, ma anche di toccare con mano l’esperienza di una vita quotidiana senza assunzione di alcolici. Lo stesso principio della campagna “Un mese senza fumo”, proposta a novembre. La differenza è che il Dry January non è ufficialmente sostenuto dalle autorità sanitaria d’oltralpe, lamentano ricordando che l’abuso di alcol è la prima causa di ricovero ospedaliero e la seconda causa (dopo il tabacco) di mortalità evitabile in Francia, con circa 45mila decessi l’anno.

Intelligenza Artificiale evidenzia segnali nascosti di fibrillazione atriale

(da MSD Salute)  I ricercatori dello Smidt Heart Institute del Cedars-Sinai Medical Centre (USA) hanno messo a punto un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale che è in grado di rilevare anomalie del ritmo cardiaco nelle persone asintomatiche, identificando segnali che sfuggono agli esami diagnostici e permettendo così di prevenire meglio ictus e altre complicanze cardiovascolari nei pazienti con fibrillazione atriale, il disturbo cardiaco più comune. Inoltre, l’algoritmo funziona in contesti e popolazioni di pazienti differenti. 

Secondo gli esperti, circa una persona su tre con fibrillazione atriale non sa di soffrire della patologia. Nella fibrillazione i segnali elettrici del cuore che regolano il pompaggio del sangue non sono regolari e questo può causare ristagno di sangue e formazione di coaguli all’interno delle camere cardiache; coaguli che possono arrivare al cervello e provocare un ictus ischemico.

Per mettere a punto l’algoritmo i ricercatori hanno programmato uno strumento basato sull’intelligenza artificiale che è stato ‘addestrato’ su quasi un milione di ECG, ricavati da due reti ospedaliere dei Veterans Affairs.  L’algoritmo ha previsto con precisione i casi di fibrillazione atriale che si sono verificati entro 31 giorni dall’osservazione. Applicando il metodo in modo retrospettivo sulle cartelle cliniche, il metodo ha mostrato lo stesso livello di performance.

“Questa ricerca consente una migliore identificazione di una malattia nascosta e fornisce indicazioni sul modo migliore per sviluppare algoritmi generalizzabili a tutti i pazienti”, conclude David Ouyang, autore senior della ricerca.

(https://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/article-abstract/2810388)

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