Malasanità, 7 volte su 10 il medico non c’entra

(da enpam.it – riproduzione parziale)   Ogni 10 accertamenti su casi di presunta malasanità solo 3 chiamano in causa direttamente i medici.    È questa una delle conclusioni a cui giunge la ricerca “La legge Gelli-Bianco e l’accertamento tecnico preventivo. Un primo bilancio sull’accertamento della responsabilità sanitaria nel Tribunale di Roma”, presentata mercoledì mattina a Roma nella Sala del Museo Ninfeo.

PRIMO TAGLIANDO PER LA “GELLI-BIANCO”   L’indagine sul campo è stata realizzata dall’Eurispes in collaborazione con la XIII sezione del Tribunale di Roma, l’Enpam e lo studio legale Di Maria Pinò, ed è la prima realizzata in questo particolare ambito in Italia.   La XIII sezione del Tribunale di Roma (ve ne è solo una analoga presso il Tribunale di Milano), è composta da 16 magistrati che si occupano in via esclusiva di responsabilità professionale. Nell’àmbito di tale responsabilità, quella sanitaria è pari a circa l’85/90 per cento del totale dei casi. Inoltre, il Tribunale di Roma è quello che tratta il maggior numero di cause di responsabilità medica e delle strutture sanitarie tra tutti quelli italiani (il 35 per cento circa del totale), i risultati dell’indagine sono dunque ben rappresentativi del dato nazionale.   La consultazione dell’archivio della XIII sezione, partendo da circa duemila Accertamenti tecnici preventivi (Atp) svolti dal 1° aprile 2017 (data di entrata in vigore della “legge Gelli-Bianco”) al 31 dicembre 2021, ha permesso di repertare gli Accertamenti tecnici preventivi effettuati da 336 medici legali.   Gli accertamenti tecnici considerati sono complessivamente 1.380.

10 MILIARDI PER LA MEDICINA DIFENSIVA    L’indagine ha reso possibile una prima, accurata, valutazione dell’impatto della “legge Gelli”, relativamente agli Accertamenti tecnici preventivi volti alla conciliazione della lite che rappresentano il primo livello della sua applicazione.   La Legge Gelli si prefiggeva, tra gli altri, un obiettivo ben preciso: quello di combattere la cosiddetta “medicina difensiva”, cioè una serie di comportamenti tenuti dall’operatore sanitario nei confronti del paziente con il solo fine di evitare il rischio della insorgenza dei contenziosi civili e penali a carico del medico e/o della struttura sanitaria.   La medicina difensiva, oltre a costringere i medici in trincea, incide sul Servizio sanitario nazionale per circa 10 miliardi l’anno, il che è pari allo 0,75 per cento del Pil (dati aggiornati al 2014).

RESPONSABILITÀ ACCERTATA IN 2 CASI SU 3   A cinque anni dall’entrata in vigore della legge, nonostante alcune previsioni necessitino ancora dei decreti attuativi per poter dispiegare i propri effetti, dai risultati emersi appare come, almeno in parte e specularmente per il settore della responsabilità civile, la norma abbia raggiunto alcuni degli obiettivi prefissati.   Il dato di maggiore rilevanza è che nell’analisi dei 1.380 Atp esaminati, i medici non risultano essere personalmente coinvolti nel 70,3 per cento dei casi, mentre lo sono nel 29,7 per cento.    Dalla ricerca emerge che gli Atp che si concludono positivamente per il paziente sono il 65,3 per cento, mentre l’esito è stato positivo per la struttura il 31,1 per cento delle volte; nei due terzi dei casi, dunque, la responsabilità professionale della struttura sanitaria e/o del medico risultano effettive.    L’Atp, che rappresenta il vero fulcro e cardine del procedimento, non è altro, sostanzialmente, che un giudizio che dei medici danno sull’operato di altri medici. Nel 29 per cento degli Atp vi è stata una chiamata in causa dell’assicurazione.

ORTOPEDIA IN CIMA ALLE CONTESTAZIONI     Guardando alla tipologia di convenuto, il 40,4 per cento delle volte risulta trattarsi di una struttura pubblica, il 36,1 per cento di struttura privata e, nell’11 per cento dei casi, di medico persona fisica/assicurazione. Analizzando il dettaglio dei settori specialistici interessati, emerge che il settore coinvolto più spesso è Ortopedia (16,3 per cento), seguito da Chirurgia (13,2 per cento) e da Infettivologia (11,7 per cento). Nel complesso, dunque, il 41,2 per cento degli Atp interessa questi tre settori.   I dati indicano dunque, da un lato, come la maggioranza delle richieste di accertamento non sia pretestuosa ed evidenzi responsabilità mediche e delle strutture sanitarie, dall’altro come i medici specialisti chiamati a valutare, in qualità di consulenti tecnici di ufficio, siano corretti e trasparenti nell’accertamento delle responsabilità dei colleghi.    Si evidenzia – si legge nel documento – come in alcuni casi vi sia un problema di funzionamento delle strutture mediche e ospedaliere piuttosto che una responsabilità dei medici. Il contrasto al fenomeno della medicina difensiva necessita anche e soprattutto di un intervento sociale e culturale di sistema, incentrato sul diritto a un’adeguata informazione dei cittadini sulla efficacia degli interventi sanitari, costruito mediante il dialogo tra il paziente e il medico.   Un particolare sforzo – conclude la ricerca – dovrà essere fatto in questa direzione.

Rumore del traffico determina aumento della pressione sanguigna

(da Quotidiano Sanità)    Vivere vicino a una strada trafficata provoca un aumento della pressione sanguigna, ma la causa è il rumore, non l’inquinamento. A chiarirlo è uno studio pubblicato da ‘JACC: Advances’ e coordinato da Jing Huang dell’Università di Pechino, in Cina.   “Siamo rimasti un po’ sorpresi quando abbiamo scoperto che l’associazione tra rumore del traffico stradale e l’ipertensione era robusta anche dopo l’aggiustamento per l’inquinamento atmosferico”, osserva l’autore principale dello studio.   Studi precedenti avevano già mostrato una connessione tra strade trafficate e aumento del rischio di ipertensione. Tuttavia non era chiaro se fosse il rumore o piuttosto l’inquinamento ad avere un ruolo nello sviluppo dell’ipertensione.

Lo studio cinese     Per analizzare questi aspetti, i ricercatori dell’Università di Pechino hanno raccolto dati relativi a più di 240mila persone tra 40 e 69 anni, senza ipertensione al basale. Il team ha stimato il rumore dovuto al traffico sulla base della residenza, utilizzando un sistema di valutazione europeo, il Common Noise Assessment Method.   Dopo un follow-up di 8,1 anni, i ricercatori hanno individuato quante persone sviluppavano ipertensione, cercando di valutare anche un’eventuale associazione con la ”quantità” di rumore ai quali erano esposti. Dai risultati è emerso che il rumore da traffico è collegabile e a un aumento della pressione arteriosa; un risultato che, secondo gli stessi autori, deve essere tenuto in considerazione a livello di decisioni di misure di salute pubblica.

Un mix tra smog e polline causa allergie anche in chi non ne è affetto

(da DottNet)    Anche chi in genere non soffre di allergie in questi giorni potrebbe manifestarne i sintomi tipici, come occhi rossi, starnuti e asma, specie in città. Alcuni inquinanti atmosferici vengono infatti assorbiti dai pollini e poi rilasciati nelle vie aeree, intensificando le manifestazioni allergiche. È quanto evidenzia uno studio coordinato dal Max Planck Institute for Chemistry di Mainz pubblicato sulla rivista ‘Frontiers in Allergy’.     A segnalare la ricerca è la Società Italiana di Aerobiologia Medicina e Ambiente (Siama), che, in occasione del primo giorno di primavera, organizza la Giornata Nazionale del Polline che sarà celebrata domani con un evento alla Camera dei Deputati patrocinato dalla Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic).    “Lo studio mostra che alcuni pollini, come ad esempio quelli delle graminacee, innescano l’iperattivazione dei Toll-like receptor 4 (TLR4), recettori cellulari che attivano la reazione allergica del sistema immunitario, anche in chi non soffre di allergie”, spiega Mario Di Gioacchino, presidente Siaaic. “Finora si era partiti dal presupposto che il continuo aumento delle malattie allergiche registrato negli ultimi decenni fosse da ricondurre alla combinazione tra predisposizione genetica e anomalie climatiche”, aggiunge il presidente Siama, Vincenzo Patella. “Ad avere un ruolo determinante in questa ‘epidemia di allergie’ sarebbe anche l’esposizione eccessiva degli allergeni ad alcuni inquinanti atmosferici che, proprio negli ultimi anni, hanno raggiunto concentrazioni elevate”.  Intanto quella appena iniziata si preannuncia una stagione da record: “Siamo passati da concentrazioni di 200 pollini totali per metro cubo di media nei giorni di picco di 5 anni fa ai 2.000 attuali, ben 10 volte di più”, segnala Patella.

Pochi, stanchi e delusi. I giovani medici sono in fuga dagli ospedali italiani. Ecco i numeri aggiornati

(da Doctor33)   «Non riusciamo più a erogare cure gratuite a tutti nei tempi utili perché siamo pochi, stanchi, disamorati di una professione che inizia come sogno e diventa un incubo strada facendo». La frase di Pierino Di Silverio segretario generale nazionale di Anaao Assomed, principale sigla dei medici ospedalieri, non va contestualizzata in un comunicato sindacale ma nasce da una riflessione sulla realtà da cui si genera la fuga dei giovani medici in Italia. Una realtà che, scopriamo insieme, interessa l’ospedale più fatiscente come il più avanzato. Uno dei leit motif per giustificare gli esodi prematuri è che non solo da “gettonisti” nelle coop, ma soprattutto all’estero: in Francia, Germania, Olanda un medico ad inizio carriera guadagna circa il doppio che in Italia. Ma il movente non è solo economico, non è solo organizzativo, non si deve immaginare “stanco” solo chi lavora in un ospedale piccolo o decrepito.
Tra il 2012 e il 2018, dicono i dati della Ragioneria dello stato, sono andati via 40 mila professionisti dal Servizio sanitario: in gran parte infermieri e medici. Contratti bloccati e degli stipendi fermi, vero; ma un articolo di fine 2022 sul sito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “Il personale sociosanitario un confronto europeo” ricorda che in Italia c’è perenne carenza di camici, e che abbiamo (dati Ocse) 33 addetti alla sanità ogni 1000 abitanti contro 80-90 della Scandinavia e 60 di Francia e Regno Unito. Alcuni sono pagati il giusto, altri sottopagati. Nel 2020 lo stipendio medio lordo annuo di un infermiere italiano è stato 38.379 dollari mentre quello di un medico specialista di 110.348 dollari; nel resto d’Europa gli infermieri prendono 5 mila dollari esatti in più di media e 3 mila in meno prende il medico specialista. Quindi, le retribuzioni dei medici italiani non sono poi inferiori a quelle registrate in altri paesi ricchi. Se negli anni 2010 è stata giustificata una fuga degli infermieri, perché sono andati via i medici? Pierino Di Silverio, Segretario Generale del sindacato dei medici ospedalieri Anaao Assomed, punta il dito contro una pluralità di motivi specifici: retribuzioni al palo (cioè prospettiva di perdita di potere d’acquisto), reparti affollati di pazienti e svuotati di colleghi, difficoltà di crescita professionale (solo il 7% riesce a fare carriera). Ma non solo. «Ai problemi organizzativi si aggiungono problemi sociali, primo tra tutti la perdita di ruolo del medico nella società che favorisce aggressioni e denunce. Inoltre, il tipo di lavoro e di contratto è ormai una gabbia professionale. I medici in Italia non sono più liberi di vivere, è stato sottratto loro il tempo di vita, è stato imposto il tempo di cura che ha sostituito la cura del tempo».
E qui viene il problema che investe tutti gli ospedali italiani, anche quelli “top”, dove la gratificazione di lavorare “bene”, in équipe, ricambiata dal paziente, si scontra con la percezione di agire dentro affollate catene di montaggio. «Il rapporto medico-paziente è ormai un rapporto economicistico di venditore-acquirente e la salute è diventata un prodotto. Il medico oggi in Italia si sente abbandonato, solo, non protetto da quelle istituzioni che dovrebbero valorizzarlo in quanto erogatore di cure. È una questione economica, ma non solo», spiega Di Silverio. «Occorre liberare i medici e i dirigenti sanitari dalle catene della burocrazia che occupa e sostituisce tempo di cura, occorre pagare meglio i medici e i dirigenti sanitari defiscalizzando stipendi sui quali grava la pressione fiscale più alta d’Europa. Ma occorre anche reinvestire nelle carriere e nel miglioramento delle condizioni di lavoro. E depenalizzare l’atto medico che solo in Italia sottopone il professionista a ben tre tribunali. Per far tutto ciò occorre investire in sanità, tornando a considerarla un bene e non un prodotto».

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