Medici vittima del Covid-19, via libera a 15 milioni di euro: Enpam aiuta i familiari a fare domanda

da Sanitainformazione.it e enpam.it)   Via libera alle erogazioni delle quote dal fondo speciale di 15 milioni di euro messo a disposizione dallo Stato in favore dei familiari dei medici deceduti per Covid-19. A renderlo noto è l’Enpam attraverso la sua pagina web. Nella stessa sede, l’ente non manca di garantire agli aventi diritto il suo supporto nell’acquisizione della documentazione necessarie per esperire la domanda all’Inail, e ricorda che il termine ultimo di presentazione della domanda scade il 4 marzo 2023.

Requisiti e aventi diritto   Il fondo statale, si legge sul sito Enpam, è destinato ad una platea più ampia rispetto ad altri tipi di aiuti, perché riguarda non solo i coniugi superstiti e gli orfani, ma anche i coniugi da unione civile, ai figli senza limiti di età e, in mancanza di coniugi o prole, ai genitori del sanitario deceduto, senza limiti di reddito. Per aver diritto alla quota del fondo è necessario che il professionista sia deceduto dopo aver contratto il Covid-19 mentre era in attività durante il periodo di emergenza pandemica (31 gennaio 2020 – 31 marzo 2022), anche nel caso in cui la morte sia avvenuta dopo, ma comunque entro il 28 dicembre 2022.  Sarà necessario dichiarare esplicitamente che “il decesso è avvenuto per effetto diretto/concausa del contagio da Covid-19”.

L’importo del sussidio      L’importo del sussidio sarà calcolato dividendo i 15 milioni di euro del fondo per il numero delle domande accolte. Si tratterà di una somma esentasse, che non concorrerà quindi alla formazione del reddito complessivo, e che sarà cumulabile con eventuali altri sussidi o aiuti.

Come fare domanda      La domanda, che deve essere corredata di documentazione che attesti il titolo professionale, lo svolgimento dell’attività durante il periodo di emergenza sopra citato, e il contagio da Covid-19, deve essere effettuata entro il 4 marzo 2023 dal sito Inail attraverso il servizio online denominato ““Speciali elargizioni familiari vittime Covid-19”.  Al servizio, spiega Enpam, è possibile accedere solo con Spid, Carta d’identità elettronica o Cns (Carta nazionale dei servizi), ma la domanda può essere fatta anche da un delegato. Per ricevere assistenza da Enpam in merito alla documentazione necessaria è possibile scrivere a info.iscritti@enpam.it.

Il sostegno di Enpam     «Questa misura è un atto di giustizia per tutti i colleghi deceduti combattendo il Covid a mani nude – afferma il presidente dell’Enpam Alberto Oliveti -. Lo Stato si era fatto carico solo di una parte dei caduti sul lavoro e oggi pone rimedio, almeno simbolicamente, includendo non solo i familiari dei dipendenti scomparsi ma anche dei liberi professionisti e dei convenzionati. Resta fermo il nostro sostegno a ulteriori iniziative per riconoscere un giusto ristoro anche a tutti i medici che pur sopravvissuti al Covid hanno subito conseguenze di lungo periodo – conclude Oliveti – e per risarcire in modo più adeguato diversi familiari superstiti ancora poco aiutati».

Due o tre caffè al giorno per abbassare la pressione

Due o tre caffè al giorno per abbassare la pressione

(da Nutrienti e Supplementi)  Bere due o tre caffè al giorno aiuta a mantenere bassa la pressione, sia a livello periferico che dell’aorta centrale, prossima al cuore. Questi i risultati di uno studio pubblicato di recente su ‘Nutrients’, realizzato da ricercatori dell’Università di Bologna e dell’Irccs Azienda ospedaliero-universitaria di Bologna – Policlinico di Sant’Orsola.   L’indagine ha preso in considerazione un campione di 720 uomini e 783 donne a partire da una sub-coorte del Brisighella heart study, uno studio osservazionale coordinato da Claudio Borghi, del dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna.  Per ognuna delle persone individuate, sono stati confrontati i livelli della pressione sanguigna e le abitudini di consumo del caffè, insieme a una serie di altri dati clinici.

“I risultati sono molto chiari: la pressione arteriosa periferica è risultata decisamente più bassa nei soggetti che consumano da una fino a tre tazze di caffè al giorno rispetto ai non consumatori di caffè”, spiega Arrigo Cicero, professore al dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell’Università di Bologna e primo autore dello studio. “Per la prima volta, inoltre, abbiamo potuto confermare questi effetti anche rispetto alla pressione aortica centrale, quella vicina al cuore, dove si osserva un fenomeno quasi identico, con valori del tutto simili per chi beve abitualmente caffè rispetto ai non consumatori”.

Il caffè è una delle bevande più diffuse in Italia e al mondo: si stima che tra il 2020 e il 2021 ne siano stati consumati quasi 10 milioni di tonnellate a livello globale. Nonostante si sia temuto a lungo che potesse avere conseguenze negative per la salute, sono emersi invece da tempo diversi effetti benefici: tra chi ne beve abitualmente è stato osservato un minor rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, diabete e alcune malattie neurodegenerative e del fegato. Non è ancora chiaro però a che cosa siano dovuti questi effetti, e non sembra siano legati direttamente al ruolo della caffeina. 

“La caffeina è solo uno dei diversi componenti del caffè e certamente non è l’unico che ha un ruolo attivo: effetti positivi per la salute umana sono stati registrati infatti anche tra chi consuma caffè decaffeinato”, prosegue Cicero. “Sappiamo che la caffeina può contribuire ad aumentare la pressione sanguigna, ma altri componenti bioattivi nel caffè sembrano controbilanciare questo effetto, con un risultato finale positivo rispetto ai livelli della pressione”.  Per Claudio Borghi, responsabile della ricerca, “si tratta del primo studio a osservare questa associazione sulla popolazione italiana e i dati confermano l’effetto positivo del consumo di caffè rispetto al rischio cardiovascolare”.

Medici di famiglia in pensione a 72 anni: quando conviene e a chi interessa

(da DottNet)   E’ arrivato il definitivo via libera della Camera al cosiddetto Decreto Milleproroghe, che contiene una norma molto attesa da medici e pazienti: il mantenimento in servizio dei medici di base fino al settantaduesimo anno di età. E’ il caso di fare subito qualche riflessione in materia, in attesa di completarle dopo la pubblicazione del testo di legge in Gazzetta Ufficiale e dopo che il Ministero della Salute avrà diramato le proprie istruzioni applicative.  Questo il testo della norma in questione:  

Articolo 4, comma 9-octiesdecies. Al fine di far fronte alle esigenze del Servizio sanitario nazionale e di garantire i livelli essenziali di assistenza, in assenza di offerta di personale medico convenzionato collocabile, le aziende del Servizio sanitario nazionale, sino al 31 dicembre 2026, possono trattenere in servizio, a richiesta degli interessati, il personale medico in regime di convenzionamento col Servizio sanitario nazionale di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.502, in deroga ai limiti previsti dalle disposizioni vigenti per il collocamento in quiescenza, fino al compimento del settantaduesimo anno di età comunque entro la predetta data. 

Innanzitutto: chi è interessato dalla proroga? Non è una domanda banale, perché in molti articoli pubblicati su diversi organi di stampa si parla delle categorie dei medici di famiglia e dei pediatri di libera scelta. Ma in realtà il testo di legge parla di personale medico in regime di convenzionamento con il Servizio sanitario nazionale, quindi in realtà dovrebbero essere coinvolti anche gli addetti ai servizi di continuità assistenziale, emergenza territoriale e medicina dei servizi, oltre agli specialisti ambulatoriali convenzionati. Dovrebbero invece essere esclusi gli specialisti già convenzionati e transitati a rapporto d’impiego, anche se alcuni di essi fanno notare che molte regioni hanno deliberato una totale parificazione giuridico-amministrativa fra le due categorie. 

Altra domanda: la permanenza in servizio è un diritto oppure può essere negata? Anche qui soccorre il testo della norma, che parla, come presupposto, dell’assenza di offerta di personale medico convenzionato collocabile, e dice che, su questa base, le Asl possono trattenere in servizio i richiedenti. L’esperienza dice, in concreto, che nel Lazio, dove una deroga simile è già in vigore, alcune Asl hanno negato la prosecuzione ai richiedenti, giovandosi della presenza di altri medici in graduatoria. 

Infine, la domanda delle domande: conviene chiedere il mantenimento in servizio? Generalmente, dopo le riforme Enpam ingenerate dalla riforma Fornero è difficile vedere pensioni elevatissime, più alte dello stipendio percepito, salvo forse per qualche specialista ambulatoriale. Quindi, se si gode di buona salute e di una discreta voglia di rendersi ancora utili, il vantaggio economico dovrebbe essere concreto. Sul versante pensionistico, dopo la bocciatura attuariale della proposta Enpam di incentivi calcolati sull’intero trattamento, restano comunque delle maggiorazioni percentuali sugli anni di servizio successivi al pensionamento, e soprattutto si aggiungono anni di contributi al calcolo dell’assegno: per un generico massimalista ad occhio e croce ogni anno di lavoro in più dovrebbe mediamente tradursi in circa un centinaio di euro netti mensili di incremento pensionistico. 

Per quanti vogliono allontanarsi dolcemente dall’attività, c’è poi sempre il recente istituto dell’APP (Anticipo Prestazione Pensionistica), con cui, sempre su base volontaria, il generico o il pediatra possono farsi affiancare da un giovane, percependo metà stipendio e metà pensione. Ma un dubbio rimane: se c’è un giovane pronto a rilevare metà dei pazienti (e quindi teoricamente anche l’intero pacchetto di mutuati), le Asl sono in condizione di autorizzare la prosecuzione della convenzione del medico anziano? Dubbi, questi, che saranno presto sciolti dagli effetti pratici del provvedimento

Vitamina D, nuovi criteri per la prescrizione

Vitamina D, nuovi criteri per la prescrizione

(da Adnkronos Salute)  L’Agenzia italiana del farmaco Aifa ha aggiornato la Nota 96 sui criteri di appropriatezza prescrittiva della supplementazione con vitamina D e suoi analoghi (colecalciferolo, calcifediolo), per la prevenzione e il trattamento degli stati di carenza nell’adulto. La determina (n. 48/2023) è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale.

“L’aggiornamento della Nota, istituita nel 2019 – spiega l’Aifa – si è reso necessario a seguito della pubblicazione di nuove evidenze scientifiche che hanno ulteriormente chiarito il ruolo della vitamina D in assenza di concomitanti condizioni di rischio”. In particolare, sono stati presi in considerazione “i risultati di due ampi studi clinici randomizzati”, lo studio americano Vital (Nejm 2022) e lo studio europeo Do-Health (Jama 2020).

“Entrambi – ricorda l’agenzia – hanno concluso che la supplementazione con dosi di vitamina D più che adeguate (2000 UI die di colecalciferolo) e per diversi anni (oltre 5 anni nel primo studio e 3 anni nel secondo) non è in grado di modificare il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi. Questi risultati si sono confermati anche tra i soggetti con livelli più bassi di vitamina 25(OH)D. A questi studi principali si aggiunge – precisa l’Aifa – la ricca letteratura riguardante l’utilizzo nel Covid-19, che non ha dimostrato alcun beneficio della vitamina D anche in questa condizione”.

“Con l’occasione sono state inserite nel testo della Nota alcune precisazioni migliorative, su proposta di clinici o società scientifiche”, riferisce l’Aifa.

Queste, dettaglia l’Agenzia italiana del farmaco, le modifiche alla Nota 96: “Introduzione della nuova categoria di rischio ‘persone con gravi deficit motori o allettate che vivono al proprio domicilio’; riduzione da 20 a 12 ng/mL (o da 50 a 30 nmol/L) del livello massimo di vitamina 25(OH)D sierica, in presenza o meno di sintomatologia specifica e in assenza di altre condizioni di rischio associate, necessario ai fini della rimborsabilità; specificazione di livelli differenziati di vitamina 25(OH)D sierica in presenza di determinate condizioni di rischio (ad es. malattia da malassorbimento, iperparatiroidismo) già presenti nella prima versione della Nota; aggiornamento del paragrafo relativo alle evidenze più recenti sopracitate e inserimento di un breve paragrafo dedicato a vitamina D e Covid-19; introduzione di un paragrafo sui potenziali rischi associati all’uso improprio dei preparati a base di vitamina D”.

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