Dal vaccino antinfluenzale protezione contro gli effetti del Covid

(da DottNet)   Il vaccino antinfluenzale potrebbe proteggere dagli effetti più gravi di Covid-19, riducendo il rischio di ictus, sepsi e trombosi venosa profonda, oltre a quello di ricovero in pronto soccorso e in terapia intensiva. Lo afferma uno studio presentato allo European Congress of Clinical Microbiology and Infectious Diseases. Nello studio i ricercatori dell’università di Miami hanno analizzato il database chiamato TriNetX, che contiene le cartelle cliniche di più di 70 milioni di pazienti in tutto il mondo, identificandone due gruppi di circa 40mila soggetti di diversi paesi, i cui membri erano simili per tutte le caratteristiche legate al rischio di Covid grave, dall’età ai problemi pregressi.    Solo quelli del primo gruppo però avevano fatto il vaccino per l’influenza tra due settimane e sei mesi prima della diagnosi di Covid. L’analisi ha mostrato che chi non aveva fatto il vaccino aveva un rischio superiore del 20% di essere ricoverato in terapia intensiva, del 58% di andare al pronto soccorso, del 45% di avere la sepsi, del 58% di avere un ictus e del 40% di avere una trombosi, mentre il rischio di morte è rimasto invariato nei due gruppi. “Non è ancora noto il meccanismo di questa possibile protezione – concludono gli autori – ma la maggior parte delle teorie sono incentrate sul rafforzamento del sistema immunitario ‘generale’, delle difese che non sono dirette contro una malattia particolare”.

Vaccini contro COVID-19, gravidanza e allattamento: stop alla disinformazione

(da Univadis)   Malgrado il sempre maggior numero di dati e di linee guida a favore della vaccinazione anti Covid-19 in gravidanza e allattamento, sono moltissime le donne che ricevono dai propri medici curanti o dai medici vaccinatori informazioni contrastanti: in alcuni casi il consiglio è quello di non vaccinarsi, in altri di attendere almeno il secondo trimestre ma non mancano segnalazioni di donne che si sono sentite dire che il vaccino è controindicato persino se si cerca una gravidanza o durante l’allattamento (su questo caso specifico sono giunte in redazione anche testimonianze di donne a cui è stata consigliata l’interruzione dell’allattamento al seno, una misura che non ha alcun riscontro scientifico a supporto). Per questa ragione è utile fare chiarezza sulle ragioni che hanno indotto le maggiori società scientifiche del mondo (e molti enti regolatori) a consigliare la vaccinazione a chi è in gravidanza, a chi desidera un figlio e a chi allatta.

La posizione dell’AIFA    “I dati sull’uso dei vaccini anti COVID-19 durante la gravidanza e in allattamento sono tuttora molto limitati, tuttavia studi di laboratorio su modelli animali non hanno mostrato effetti dannosi. In particolare, i vaccini non sono controindicati e non escludono a priori le donne in gravidanza dalla vaccinazione, perché la gravidanza, soprattutto se combinata con altri fattori di rischio come il diabete, le malattie cardiovascolari e l’obesità, potrebbe renderle maggiormente esposte a rischi in caso di malattia COVID-19 grave” afferma il documento dell’AIFA. sulle indicazioni alla vaccinazione.  Per quanto riguarda l’allattamento al seno, sebbene non ci siano ancora studi specifici, sulla base della plausibilità biologica non è previsto alcun rischio che impedisca di portarlo avanti.  L’Istituto Superiore di Sanità (ISS), attraverso il progetto ItOSS, sta partecipando al dibattito nazionale e internazionale su questi aspetti e ha recentemente pubblicato un documento con l’obiettivo di sostenere i professionisti sanitari e le donne in gravidanza e allattamento nel percorso decisionale riguardo alla vaccinazione. In generale, infatti, l’uso del vaccino durante queste fasi della vita della donna dovrebbe essere deciso in stretta consultazione con un operatore sanitario, dopo aver considerato i benefici e i rischi.

Aggiornare le limitazioni    Queste al momento le indicazioni a cui è giunto l’ISS sulla base delle evidenze scientifiche sul tema, producendo documenti condivisi e sottoscritti dalle principali società scientifiche italiane del settore (la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, SIGO, l’Associazione degli Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani, AOGOI, l’Associazione Ginecologi Universitari Italiani, AGUI, l’Associazione Ginecologi Territoriali, AGITE, la Federazione Nazionale Collegi Ostetriche, FNOPO, la Società Italiana di Neonatologia, SIN, la Società Italiana di Medicina Perinatale, SIMP ,la Società Italiana di Pediatria, SIP, l’Associazione Culturale Pediatri, ACP, la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, SIAARTI).  Per stilare le indicazioni ad interim relative ai vaccini Pfizer, Moderna e AstraZeneca sono stati analizzati la sicurezza del vaccino per madri e neonati, i rischi potenziali della malattia da COVID-19 nella madre (inclusi i possibili effetti sul feto e il neonato), il rischio individuale di contrarre l’infezione in considerazione delle possibili comorbilità e il livello di attività della pandemia nella comunità di riferimento e sul posto di lavoro della donna.

Queste le ultime raccomandazioni disponibili:

– le donne in gravidanza e allattamento non sono state incluse nei trial di valutazione dei vaccini Pfizer, Moderna e AstraZeneca per cui non disponiamo di dati di sicurezza ed efficacia relativi a queste persone;

– gli studi condotti finora non hanno evidenziato né suggerito meccanismi biologici che possano associare i vaccini a mRNA a effetti avversi in gravidanza e le prove di laboratorio su animali suggeriscono l’assenza di rischio da vaccinazione;

– dai dati dello studio ItOSS – relativi alla prima ondata pandemica in Italia – emerge che le donne in gravidanza presentano un rischio basso di gravi esiti materni e perinatali e che le comorbilità pregresse (ipertensione, obesità) e la cittadinanza non italiana sono significativamente associate a un maggior rischio di complicanze gravi da COVID-19;

– se una donna vaccinata scopre di essere in gravidanza subito dopo la vaccinazione, non c’è evidenza in favore dell’interruzione della gravidanza;

– le donne che allattano possono essere incluse nell’offerta vaccinale senza necessità di interrompere l’allattamento;

– le donne in età fertile possono vaccinarsi con i vaccini anti COVID-19 poiché gli studi effettuati sui modelli animali non indicano effetti dannosi sulla capacità riproduttiva associati alla vaccinazione.

Il margine di incertezza che ha spinto molti medici a sconsigliare alle donne la vaccinazione è però contenuto nelle seguenti affermazioni, riportate dal medesimo documento, in accordo, peraltro, con le posizioni dell’OMS in materia (aggiornate al mese di aprile 2021):

– al momento le donne in gravidanza e allattamento non sono un target prioritario dell’offerta di vaccinazione contro il COVID-19 che, ad oggi, non è raccomandata di routine per queste persone;

– se una donna scopre di essere in gravidanza tra la prima e la seconda dose del vaccino può rimandare la seconda dose dopo la conclusione della gravidanza, eccezion fatta per i soggetti ad altro rischio;

– la vaccinazione dovrebbe essere presa in considerazione per le donne in gravidanza che sono ad alto rischio di complicazioni gravi da COVID19. Le donne in queste condizioni devono valutare, con i sanitari che le assistono, i potenziali benefici e rischi e la scelta deve essere fatta caso per caso.

Dal momento dell’ultimo aggiornamento che ha dato origine a queste affermazioni (gennaio 2021) sono usciti diversi studi che hanno aiutato a fare chiarezza e a far pendere la bilancia a favore del vaccino.  Per esempio, su JAMA è uscito uno studio di coorte retrospettivo che includeva 15.060 donne in gravidanza in Israele. La vaccinazione con vaccini a mRNA rispetto alla non vaccinazione risulta associata a un minor rischio di infezione (rapporto di rischio aggiustato di 0,22).   Sempre da Israele giunge un altro studio multicentrico, pubblicato sul Journal of Clinical Investigation sulle donne partorienti reclutate in 8 centri medici del Paese e assegnate a tre gruppi: vaccinate; con infezione da SARS-CoV-2 confermata da PCR durante la gravidanza e controlli non infetti e non vaccinati. Le conclusioni sono che la vaccinazione prenatale con vaccino a mRNA induce una robusta risposta anticorpale umorale materna che si trasferisce efficacemente al feto, sostenendo il ruolo della vaccinazione durante la gravidanza.  A metà del mese di aprile, sulle pagine del BMJ, il Comitato consultivo sui vaccini del Regno Unito ha affermato che alle donne in gravidanza dovrebbe essere offerto il vaccino Pfizer o Moderna, con priorità in base all’età e al gruppo di rischio clinico e che non sono stati identificati problemi di sicurezza specifici relativi alla gravidanza, ma che dati real world dagli Stati Uniti su circa 90.000 donne in gravidanza, vaccinate principalmente con i vaccini Pfizer e Moderna, escludono problemi di sicurezza.  Questa è anche la posizione della Haute Autorité de Santé, l’ente francese di governo della salute pubblica che, alla fine del mese di luglio, ha cambiato le proprie indicazioni sulla vaccinazione in gravidanza. Se finora la raccomandazione era di attendere il secondo trimestre prima di procedere, ora la raccomandazione è di vaccinarsi il prima possibile, poiché i dati fanno pendere la bilancia a favore dei benefici, anche alla luce delle statistiche che mostrano come le donne in gravidanza tendino a sviluppare forme sintomatiche anche gravi della malattia, in particolare nel terzo trimestre.

L’allattamento al seno   Infine c’è la questione dell’allattamento. Su questa vi sono ancor meno dubbi che sulla somministrazione del vaccino in gravidanza. Il passaggio di anticorpi materni attraverso il latte, infatti, lungi dall’essere un problema, è invece un fattore di protezione del neonato nei confronti della malattia. Uno studio prospettico longitudinale su donne in allattamento che hanno ricevuto il vaccino a mRNA, apparso sul Journal of  Human Lactation, ha raccolto campioni di latte prima della vaccinazione e 3, 5, 7, 9, 11, 13 e 15 giorni dopo entrambe le dosi di vaccino. In totale, sono stati analizzati 366 campioni di latte di 26 donne. Dopo la vaccinazione, è stata osservata una risposta anticorpale specifica per SARS-CoV-2 nel latte materno.  A metà maggio, sul BMJ, sono stati pubblicati invece i dati israeliani, secondo i quali è stata verificata le presenza della risposta anticorpale nelle donne in allattamento (84 donne e complessivamente 504 campioni di latte), dimostrando una robusta presenza IgA e IgG nel latte materno per 6 settimane dopo la vaccinazione (IgA nelle prime due settimane e IgG nelle successive quattro).   Tali dati dovrebbero essere sufficienti a dissuadere dal consigliare l’interruzione dell’allattamento, anche se questa è una posizione già condivisa dalle società scientifiche italiane nel mese di febbraio scorso. In quella data, infatti,  la Società Italiana di Neonatologia (SIN), la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Società Italiana di Medicina Perinatale (SIMP), la Società Italiana di Ostetricia e Ginecologia (SIGO), l’Associazione Italiana Ostetrici-Ginecologi Ospedalieri (AOGOI) e la Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) hanno rilasciato una dichiarazione di consenso ad hoc secondo la quale la conoscenza relativa alla somministrazione del vaccino COVID-19 alla madre che allatta è limitata. Tuttavia, poiché i benefici per la salute dell’allattamento al seno sono ben dimostrati, e poiché la plausibilità biologica suggerisce che il rischio per la salute del bambino allattato è improbabile, le società scientifiche italiane concludono che la vaccinazione COVID-19 è compatibile con l’allattamento al seno.

Gli aspetti medico-legali    Alla luce dei pronunciamenti di AIFA e delle società scientifiche, è corretto offrire la vaccinazione con vaccini a mRNA alle donne in gravidanza e allattamento senza chiedere loro alcun supplemento di indagine e senza pretendere una certificazione di nulla osta da parte del ginecologo curante. I dati real world raccolti in questi ultimi mesi non giustificano nemmeno un approccio precauzionale, dal momento che la gravidanza risulta essere un fattore di rischio per complicanze da Covid-19.

Covid, il report dell’Iss. Da febbraio quasi 99 deceduti su 100 non avevano completato il ciclo vaccinale. E fra chi lo aveva concluso si riscontra età media e numero di patologie più alte.

Rispetto alla totalità dei decessi per cui sono state analizzate le cartelle cliniche, nel campione dei deceduti con “ciclo vaccinale completo” l’età media risulta decisamente elevata (88.6 vs. 80 anni). Inoltre, il numero medio di patologie osservate in questo gruppo di decessi è di 5,0 (mediana 5, Deviazione Standard 2,2), molto più elevato rispetto ai decessi della popolazione generale (3,7). Dopo l’insufficienza respiratoria acuta, le sovrainfezioni sono le complicanze maggiormente diffuse   Leggi L’articolo completo al LINK

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=97689&fr=n

Covid. Per chi è guarito dose unica di vaccino preferibilmente entro 6 mesi e comunque non oltre i 12

Per i soggetti con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, in caso di pregressa infezione da Sars-CoV-2, resta valida la raccomandazione di proseguire con la schedula vaccinale completa prevista. Si torna a ribadire che, come da indicazioni dell’Oms, l’esecuzione di test sierologici, volti a individuare la risposta anticorpale nei confronti del virus, non è raccomandata ai fini del processo decisionale vaccinale   Leggi L’articolo completo al LINK

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Covid “Vaccinazione completa copre dall’infezione nell’88% dei casi, dal ricovero in ospedale nel 94,6%, in terapia intensiva nel 97,3% e dal decesso nel 95,8%”

I dati sono contenuti nell’ultimo rapporto sulla situazione della pandemia pubblicato dall’Iss che rileva una brusca salita di nuovi contagi nell’ultima settimana ascrivibili nella maggior parte dei casi a persone non vaccinate o vaccinate solo con la prima dose. Un altro effetto della campagna vaccinale è la diminuzione nell’età mediana dei casi di Covid, che nelle ultime due settimane è stata di 29 anni, dato che le categorie prioritarie per il vaccino sono state le fasce di età più avanzate.  Leggi L’articolo completo al LINK

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Iss, contro le varianti efficaci i 4 vaccini. I farmaci da preferire

(da DottNet)    “I primi studi affermano che il ciclo completo dei 4 vaccini già approvati rimane protettivo nei confronti di tutte le Voc – cioe’ le varianti che sono considerate piu’ rischiose- mentre diminuisce l’efficacia che si era evidenziata dopo la prima dose”. Lo sottolinea l’Istituto superiore di sanità (ISS), in un aggiornamento delle Faq sul proprio sito. Nelle ultime 24 ore il numero dei positivi è passato da 907 a 1.010, le vittime del Covid sono 14 mentre ieri erano state 24. Numeri che gli esperti leggono come un andamento dissociato, quello a cui si è affidato il premier britannico Boris Johnson per le riaperture: la variante fa aumentare i casi ma non le ospedalizzazioni e i decessi. Lo stesso ministro della Salute Roberto Speranza oggi ha sottolineato che fino a due mesi e mezzo fa “avevamo 30.000 persone in ospedale e oggi sono 1.500, il 95% in meno. Avevamo 3.800 persone nelle terapie intensive e oggi siamo sotto i 190, ben oltre il -90%”.  “Per quanto riguarda i farmaci in uso e in sperimentazione – si legge sul sito dell’Iss – non ci sono ancora evidenze definitive in un senso o nell’altro”. Alcuni articoli, spiega Iss, indicano che i monoclonali in sviluppo potrebbero perdere efficacia da soli, ma continuano a funzionare i mix di 2 anticorpi.

Se per una malattia di lieve entità vanno bene paracetamolo per la febbre e FANS per i dolori muscolo-scheletrici, i monoclonali possono essere considerati nelle prime fasi di infezione sintomatica per pazienti fragili o ad alto rischio (diabetici, cardiopatici, persone molto anziane) nella gestione domiciliare: è il medico di famiglia che deve identificare infatti il soggetto da trattare e inviarlo tempestivamente alle strutture di riferimento. Questi farmaci sono somministrati per infusione in ambulatori dedicati. Sono in effetti  gli unici farmaci che abbiano dimostrato un’azione antivirale, utile soprattutto nelle primissime fasi, entro i primi 3-4 giorni dall’eventuale insorgenza della sintomatologia clinica lieve/moderata. In termini di riduzione della viremia sono tutti efficaci, soprattutto rispetto a molti altri farmaci già in commercio testati come antivirali contro il SARS-COV2 che nel tempo si sono rivelati inutili, se non addirittura dannosi. Sono anticorpi che vanno a legarsi alla proteina Spike e impediscono l’ingresso nelle cellule e, quindi, la replicazione del virus. Ad oggi risultano sicuri, molto efficaci e richiedono una sola infusione». Secondo i primi studi, i monoclonali in uso sarebbero efficaci anche contro la variante Delta.

In Italia hanno un’autorizzazione di emergenza e, in maniera simile ai vaccini che hanno ricevuto approvazione condizionale, è contemplata una rivalutazione del loro profilo rischi-benefici sulla base di nuovi dati generati dopo la loro commercializzazione. In Italia sono oltre 6.100, dal 10 marzo a fine giugno, i pazienti Covid che li hanno ricevuti. La maggior parte di questi è stata trattata con la combinazione di bamlanivimab e etesevimab di Eli Lilly, poi c’è la combinazione casirivimab e imdevimab di Regeneron-Roche. Il 17 giugno è stato aggiunto nell’elenco dei farmaci rimborsabili dal Servizio Sanitario anche se non autorizzati il tocilizumab (per il trattamento di soggetti adulti ospedalizzati con Covid grave e/o con livelli elevati degli indici di infiammazione sistemica, in condizioni cliniche in rapido peggioramento). Tale anticorpo monoclonale, si legge sul Corriere della Sera, già autorizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide, è stato appena inserito anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nelle linee guida dei trattamenti anti Covid.

In ospedale per i casi seri e gravi si usa – soprattutto in quei pazienti che vanno a desaturare – il cortisone, in particolare il desametasone, che ha mostrato dei risultati eccezionali in termini di riduzione della mortalità. Si associa spesso l’eparina, ma come terapia profilattica, in pazienti che hanno polmoniti e sono immobilizzati. Altri farmaci con un’azione antinfiammatoria e immunosoppressiva si sono rivelati utili, come il tocilizumab, ma è da riservare solo a una certa categoria di pazienti ed in aggiunta al cortisone.  Entro la fine dell’anno, anticipa il Corriere della Sera, arriveranno quattro (se non di più) anticorpi monoclonali anti-proteina Spike, quali la combinazione di bamlanivimab ed etesevimab di Eli Lilly e la combinazione di casirivimab e imdevimab di Regeneron-Roche, già autorizzati in Europa per uso emergenziale, e regdanivimab di Celltrion e sotrovimab di GlaxoSmithKline-Vir Biotechnology, in fase di revisione da parte di EMA; inoltre ci sono molte aspettative su immunosoppressori già in commercio per il trattamento dell’artrite reumatoide, quali baricitinib e tofacitinib.

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