Fatturazione elettronica: gli strumenti per realizzarla. Questi quelli gratuiti

(da Odontoiatria33)   A partire dal 1° gennaio 2019 entrerà a regime l’obbligo di emettere (e ricevere) la fattura in formato elettronico secondo quanto previsto della legge di Bilancio 2018, sia che venga emessa nei confronti di un soggetto con partita iva che verso un privato.   Sono esonerati dall’emissione (ma non dalla ricezione) i soggetti che hanno aderito al regime fiscale agevolato dei nuovi minimi o forfettario (bacino che potrebbe aumentare con l’introduzione della flat tax a 65 mila euro di fatturato).  La differenza dell’attuale modalità di compilazione della fattura è che quella elettronica deve essere “trasformata” nel formato XML per poter essere inviata attraverso il Sistema di Interscambio (SdI) dell’Agenzia delle Entrate, che verificherà e confermerà l’avvenuta “accettazione”.   I dati da inserire sono gli stessi previsti per la metodologia di fatturazione utilizzata fino ad oggi, anche se si dovrà prestare particolare attenzione ai dati fiscali del cliente, come il Codice fiscale nel caso sia un privato. Se errato o incompleto, impedirebbe la corretta ricezione del documento da parte della Agenzia delle Entrate che non la accetterà. Sarà poi l’Agenzia delle Entrate ad inviare la fattura al cliente (rendendola disponibile nel suo cassetto fiscale, sul 730 precompilato oppure inviandola tramite Pec) inviado la ricevuta di avvenuto recapito. Ai clienti sarà possibile consegnare una copia cartacea della fattura creata in formato elettronico che, però, non avrà valore legale.  

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Idroclorotiazide. L’allerta del Ministero della Salute: “Rischio di carcinoma a cellule basali e carcinoma a cellule squamose”

(da Quotidiano Sanità)    Il Ministero della Salute, in una nota concordata con le autorità regolatorie europee, relativa ai medicinali contenenti idroclorotiazide (HCTZ), ampiamente utilizzati per il trattamento dell’ipertensione, fornisce informazioni sul rischio di tumore cutaneo non melanoma (carcinoma a cellule basali, carcinoma a cellule squamose) correlato all’esposizione a dosi cumulative crescenti di HCTZ.   I pazienti che assumono HCTZ, da sola o in associazione con altri farmaci, devono essere informati del rischio di tumori cutanei non melanoma e devono essere avvisati di controllare regolarmente la loro cute per identificare eventuali nuove lesioni o modifiche di quelle esistenti e a segnalare al medico ogni lesione cutanea sospetta.  I pazienti devono anche essere avvertiti di limitare l’esposizione alla luce solare e ai raggi UV e utilizzare una protezione adeguata quando esposti alla luce solare e ai raggi UV, per ridurre al minimo il rischio di cancro della pelle.  L’uso di HCTZ deve essere attentamente valutato in pazienti che hanno avuto un precedente tumore della cute.

Quanto pagano gli altri professionisti

(da www.enpam.it)   Anche quest’anno l’esistenza dell’obbligo contributivo Enpam ha permesso ai medici e agli odontoiatri di pagare contributi più bassi rispetto a quelli che sarebbero stati chiesti dallo Stato.  In Italia vige infatti il principio per cui tutti i redditi da lavoro devono essere assoggettati a contribuzione previdenziale.  Se non avessero una Cassa professionale, i medici e i dentisti non sarebbero esonerati dal pagare ma dovrebbero versare obbligatoriamente i contributi alla gestione separata Inps, che ai liberi professionisti riserva un’aliquota del 25,72 per cento (ben più alta di quella dell’Enpam). Per quanto riguarda le altre categorie che hanno una propria Cassa previdenziale la situazione è variegata. In ambito sanitario si va dal 16 per cento dei veterinari al 20 per cento degli infermieri, passando per il 19 per cento dei biologi. Gli psicologi hanno un minimo del 12 per cento che, a scelta dell’interessato, può salire al 22 per cento. Guardando ad altri settori troviamo i commercialisti con il 16 per cento e 18,5 per cento per avvocati e gli ingegneri e architetti.

 

Più di 100mila medici pagano contributi occulti

(da www.enpam.it)  Occhio non vede, tasca non duole. Gli oltre 100mila medici dipendenti italiani pagano all’Inps contributi previdenziali ben più alti di quanto le buste paga lasciano intravedere.  La trattenuta pensionistica nel cedolino dello stipendio può apparire con i nomi più diversi: Contributi Inps, Contributi Ivs, ex Inpdap o addirittura C.P.S., dall’acronimo della Cassa pensioni ai sanitari soppressa nel 1994.  Nella busta paga che vi mostriamo (immagini a https://www.enpam.it/news/piu-di-100mila-medici-pagano-contributi-occulti), il prelievo apparentemente è del 9,85 per cento della retribuzione lorda, come se un dirigente medico versasse per la propria pensione poco più di 500 euro al mese. Magari.  Nella realtà, nell’esempio illustrato, a fronte di 3.035 euro netti, la contribuzione versata alla gestione dipendenti pubblici Inps è stata di circa 1.800 euro. Scoprirlo non è semplice poiché l’unico documento dove la cifra reale è riportata è la certificazione unica (Cu), alla voce “Contributi pensionistici dovuti”.  Come per tutti i lavoratori subordinati, fra contributi trattenuti in busta paga e quelli versati direttamente dal datore di lavoro, l’aliquota previdenziale per i medici dipendenti si aggira intorno al 33 per cento del lordo.  Esattamente il doppio di quanto l’Enpam applica ai liberi professionisti (quest’anno l’aliquota massima era il 16,5 per cento; quella ridotta era dell’8,25 per cento o del 2 per cento per l’intramoenia e per i corsisti di medicina generale).  L’apparenza dunque inganna. Anche se c’è chi continua a sostenere che l’Enpam pretenda contributi elevati sull’attività libero professionale a fronte di una pensione futura bassa, la realtà è che in proporzione al totale dei contributi pagati, l’ente dei medici e degli odontoiatri liquida pensioni più elevate.

La vitamina D negli adulti non previene le fratture e le cadute

(da DottNet) La vitamina D negli adulti non previene le fratture e le cadute e non migliora la densità ossea, quindi le linee guida correnti che ne raccomandano l’uso specie per la popolazione anziana più a rischio di osteoporosi andrebbero cambiate. Èil verdetto di un maxi-studio pubblicato sulla rivista ‘The Lancet Diabetes & Endocrinology’.    “Le line guida in vigore andrebbero cambiate per riflettere questi risultati – sottolinea l’autore dello studio Mark Bolland della University of Auckland, in Nuova Zelanda. Data la robustezza delle evidenze oggi a disposizione, crediamo inoltre che non sia più giustificabile condurre ulteriori trial clinici sulla vitamina D alla ricerca di effetti positivi sull’apparato muscolo-scheletrico”.  Gli esperti hanno riesaminato una vastissima mole di dati relativi a ben 81 sperimentazioni cliniche pubblicate sull’integrazione di vitamina D sia a dosi basse sia alte.   A nessuna dose la vitamina D è risultata protettiva contro fratture (di tutti i tipi, fratture d’anca o vertebrali etc), cadute e per remineralizzare le ossa. Le linee guide cliniche, ribadiscono gli autori in conclusione, che continuano a raccomandare l’uso di integratori di vitamina D per la salute delle ossa dovrebbero essere aggiornate e riflettere le migliori evidenze scientifiche oggi disponibili.

Zucchero nelle sigarette, fa male e pochi sanno che c’è

(da Quotidiano Sanità e Reuters Health)   Solo pochissimi fumatori sanno che le sigarette contengono zucchero e che lo zucchero aumenta le tossine nel fumo di sigaretta. “Le sigarette contengono zuccheri naturali e aggiunti per ridurre l’asperità del fumo, facilitandone l’inalazione. Questo aumenta anche la quantità di sostanze chimiche dannose presenti nel fumo e il potenziale di dipendenza”, dice Andrew Seidenberg, della University of Nord Carolina, autore principale dello studio che ha fatto emergere questa evidenza.
Lo studio   Seidenberg e colleghi hanno coinvolto 4.350 adulti fumatori di sigarette, reclutandoli attraverso Amazon Mechanical Turk, per partecipare a un esperimento online sulla pubblicità di sigarette elettroniche. Alla fine dell’esperimento, gli intervistati hanno risposto a domande sulla presenza di zucchero aggiunto nelle sigarette e sulla consapevolezza che la presenza dello zucchero fosse ulteriormente dannosa per la salute. I ricercatori hanno scoperto che il 5,5% degli intervistati sapeva che le sigarette contengono solo il 3,8% era a conoscenza del fatto che la presenza dello zucchero aumentasse le tossine nel fumo.  “Siamo rimasti davvero sorpresi dal fatto che quasi tutti i fumatori intervistati non sapessero che lo zucchero viene aggiunto alle loro sigarette. Il rischio non può essere nascosto”, aggiunge Seidenberg.

Lavorare in piedi fa bene alla salute e non solo…

(da M.D.Digital)   Le postazioni di lavoro che consentono di stare in piedi per lavorare a computer riducono il tempo giornaliero che si trascorre seduti e sembrano avere un impatto positivo sulla salute, oltre che migliorare le prestazioni lavorative. È risaputo che una sedentarietà eccessiva si correla a un aumentato rischio di malattie croniche (diabete di tipo 2, malattie cardiache e alcuni tipi di tumore) e di mortalità; ha dimostrato inoltre di esercitare effetti deleteri correlabili all’attività lavorativa, soprattutto in relazione al fenomeno del presenteismo. E la popolazione degli impiegati vince probabilmente la palma d’oro della sedentarietà, trascorrendo il 70-85% del tempo al lavoro seduti.  Un recente studio pubblicato sul ‘British Medical Journal’ ha coinvolto un gruppo di impiegati assegnati in modo casuale al gruppo di intervento o al gruppo di controllo, che sono quindi stati seguiti per un periodo di 12 mesi.  L’età media dei partecipanti era di 41 anni, il 78% era di etnia europea bianca e la maggioranza (80%) erano donne.
Al gruppo di intervento è stata assegnata una postazione di lavoro regolabile in altezza, un breve seminario con opuscolo di supporto e istruzioni di lavoro con obiettivi seduti e in piedi, mentre il gruppo di controllo ha continuato a lavorare come al solito.  Il tempo trascorso in posizione seduta è stato misurato utilizzando un dispositivo indossato sulla coscia all’inizio dello studio e a 3, 6 e 12 mesi. Sono stati registrati anche i livelli giornalieri di attività fisica e sono stati valutati aspetti relativi al lavoro (prestazione lavorativa, coinvolgimento) e alla salute (umore, qualità della vita).  All’inizio dello studio, il tempo complessivo trascorso in posizione seduta era di 9.7 ore al giorno e i risultati mostrano che questo si è poi ridotto 50.62 minuti al giorno a 3 mesi, di 64.40 minuti al giorno a 6 mesi e di 82.39 minuti al giorno a 12 mesi nel gruppo di intervento rispetto al gruppo di controllo. I risultati suggeriscono inoltre dei miglioramenti nelle prestazioni lavorative e nell’impegno lavorativo, una riduzione della stanchezza professionale, del presenteismo, dell’ansia quotidiana e una migliore qualità della vita, ma non sono stati riscontrati cambiamenti significativi in relazione alla soddisfazione lavorativa, alla funzione cognitiva e alle assenza per malattia.
(Edwardson CL, et al. Effectiveness of the Stand More AT (SMArT) Work intervention: cluster randomised controlled trial. BMJ 2018;363:k3870; http://dx.doi.org/10.1136/bmj.k3870)

Prevenire i fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento

(da M.D.Digital)   L’estensione delle definizioni di malattia se da un lato può determinare benefici per i pazienti che possono accedere a trattamenti efficaci, dall’altro rappresenta uno dei driver principali della sovra-diagnosi (overdiagnosis), una vera e propria epidemia del 21esimo secolo che in Italia gode ancora di scarsa attenzione. Infatti, la modifica delle soglie di malattia, insieme alla disponibilità e all’uso esteso e spesso inappropriato di tecnologie diagnostiche sempre più sensibili, finiscono per etichettare come malate persone il cui stadio di malattia è troppo precoce, molto lieve e/o non evolutivo. A livello di popolazione varie sono le condizioni in cui il conseguente sovra-trattamento (overtreatment) può sbilanciare il rapporto benefici/rischi in: ipertensione, embolia polmonare, insufficienza renale cronica, osteoporosi, prediabete, carcinoma della tiroide, disturbo da deficit di attenzione e iperattività, demenza.

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La cannabis ha effetti più devastanti dell’alcol sugli adolescenti

(da DottNet)   La marijuana avrebbe effetti peggiori dell’alcol e di più lunga durata sul cervello degli adolescenti. Lo dice uno studio pubblicato sull’ ‘American Journal of Psychiatry’ che illustra i test cognitivi effettuati dai giovani, inclusi test mnemonici, di ragionamento intuitivo, analitico, di memoria a breve e lungo termine, di capacità di controllo. Lo studio è stato condotto a Montreal su oltre 3.800 ragazzi di 31 scuole, tutti tredicenni all’inizio dei test. I teen-ager sono stati seguiti per quattro anni,durante i quali hanno riportato il loro uso di alcol e marijuana (un accordo scritto vincolava i ricercatori alla riservatezza, anche con i loro genitori) ed hanno ripetutamente fatto test cognitivi. Nonostante entrambe le sostanze abbiano mostrato di danneggiare lo sviluppo cerebrale dei ragazzi, la cannabis ha evidenziato danni più pronunciati e di lungo termine. Lo studio ha concluso che la marijuana ha un effetto più profondo e di lunga durata dell’alcol nel danneggiare le funzioni logiche, di ragionamento, di memoria e in tutti i campi testati.  Questi danni sono stati osservati anche dopo che i teen-ager hanno smesso di usare cannabis. “Possiamo concludere che la cannabis causa deficit cognitivi e uno sviluppo ritardato del ragionamento negli adolescenti”, ha detto l’autrice della ricerca, Patricia Conrad, professore di psichiatria della università di Montreal.

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