Solo il 54% dei medici è in regola con i corsi di aggiornamento

(da DottNet)   Solo il 54% dei medici risulta in regola nell’ultimo triennio con i corsi di aggiornamento di Educazione formativacontinua (Ecm). Sebbene i numeri siano in crescita, di fatto quasi la metà dei camici bianchi è ancora inadempiente.  A poco più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge 24/2017 (cosiddetta Legge Gelli), la formazione si conferma elemento chiave della norma che regola la responsabilità professionale in ambito medico-sanitario. È lo stesso articolo 3, infatti, a prevedere l’individuazione di idonee misure per la prevenzione e la gestione dell’errore sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure, nonché per la formazione e l’aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie.  L’ultimo triennio formativo ECM si è concluso con solo il 54% dei medici in regola (dati CoGeAPS); sebbene i numeri siano in crescita, di fatto, quasi la metà dei camici bianchi risulta ancora inadempiente. «Al di là del dovere deontologico – spiega Consulcesi Club, realtà di riferimento per oltre 100mila medici – il mancato aggiornamento ECM, alla luce del nuovo dettato normativo, si profila come possibile elemento negativo, in caso di contenzioso, nell’accertamento della responsabilità professionale». Un’eventualità tutt’altro che remota visto che, secondo gli ultimi dati dell’Associazione nazionale imprese assicuratrici (Ania), solo nel 2016 si sono registrate oltre 15mila denunce di sinistri in ambito sanitario.  Ed è proprio in ambito assicurativo che la formazione ECM gioca un ruolo sempre più fondamentale per quanto riguarda la stipula e i costi delle polizze. «La Legge Gelli, infatti, ha introdotto l’obbligo della copertura assicurativa della responsabilità professionale per colpa grave, – sottolinea Consulcesi Club – e le compagnie potrebbero contestare eventuali casistiche collegabili alla mancata formazione, oppure determinare costi più elevati per quanti non sono in regola con i crediti ECM, proprio in virtù del maggior rischio di errore». D’altro canto, invece, chi ha adempiuto all’obbligo formativo ha la concreta prospettiva di vedersi riconosciuti sconti sui premi assicurativi, infatti già diverse compagnie dichiarano di essere al lavoro in questo senso

Enpam garantisce già la pensione a Quota 100

Per i medici e i gli odontoiatri la ‘Quota 100’ è un traguardo già raggiunto e perfino superato. Di fatto l’Enpam consente ai liberi professionisti e ai convenzionati di chiedere la pensione anticipata già con Quota 97, intesa come somma tra età anagrafica e anni di contributi.  I vantaggi, rispetto alla riforma che il nuovo governo vuole attuare, non si fermano qui. Infatti se per i dipendenti iscritti all’Inps si parla di consentire l’uscita dal lavoro all’età minima di 64 anni, l’Enpam garantisce la possibilità di pensionarsi già a 62 anni di età, con 35 anni di contributi.  Nel computo dell’anzianità contributiva rientrano anche gli anni riscattati o ricongiunti. L’unico vincolo esistente è che al momento del pensionamento siano trascorsi 30 anni dalla laurea.   Esiste infine la possibilità di andare in pensione anticipata indipendentemente dall’età anagrafica, se si hanno 42 anni di contributi.

Tar: illegittime le visite mediche a cronometro, violano il giudizio

(da DottNet)   Le visite mediche ‘a cronometro’, ovvero che devono durare non oltre un certo tempo massimo, sono ‘illegittime’. Il Tar del Lazio ha bocciato i ‘tempari’, il provvedimento introdotto dalla Regione Lazio per ridurre le liste d’attesa e che stabiliva una durata massima di tempo esami e visite specialistiche. “Un simile obiettivo – si legge nella sentenza – potrebbe essere piuttosto concretizzato, ad esempio, attraverso un aumento delle risorse umane e strumentali”.  Il Tar del Lazio accoglie il ricorso del Sindacato Unico Medicina ambulatoriale Italiana (Sumai), nel quale anche la Federazione nazionale degli ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo) era intervenuta ad adiuvandum. Tre le principali considerazioni accolte dai giudici: il fatto che “eventuali modifiche al sistema riguardante numero e durata delle prestazioni dovrebbero essere unicamente riservate alla contrattazione collettiva”. La seconda è che il provvedimento viola la “autonomia di giudizio del singolo professionista, circa la congruità del tempo da riservare alle singole visite”.   Questa è una vittoria anche dei pazienti – commenta Antonio Magi, segretario generale del Sumai -poiché a loro il professionista, lo specialista ambulatoriale, potrà dedicare tutto il tempo necessario”. Soddisfazione viene espressa anche dalla Fnomceo. “I giudici ribadiscono quello che non ci stancheremo mai di affermare: i principi di autonomia, indipendenza, libertà e responsabilità che devono informare ogni atto della nostra professione”, commenta il presidente Filippo Anelli. “Il tempo della comunicazione e dell’ascolto – osserva Tonino Aceti, coordinatore del Tribunale dei Diritti del Malato-Cittadinanzattiva – sono fondamentali per la crescita della relazione di cura. Sono i momenti nei quali la relazione tra medico e paziente trova la sua massima espressione”.

ISS: nessun rischio con tanti vaccini insieme

(da Fimmg.org e Ansa.it)  È uno dei principali dubbi di molti genitori, anche di quelli favorevoli ai vaccini: «Ma così tutti insieme, non saranno troppi?». A far chiarezza è stato, di recente, uno studio pubblicato sull’autorevole rivista JAMA, commentato ora dagli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss): «è legittimo che i genitori si pongano queste domande» e «ci sono tutti gli elementi oggettivi per fornire loro una risposta rassicurante». I vaccini oggi disponibili, infatti, si legge sul portale dell’ISS, Epicentro, sono «controllati nella composizione» e hanno un ridotto numero di antigeni, ovvero le componenti costituiscono il principio attivo su cui si basa il vaccino, perché stimolano i meccanismi naturali di difesa del corpo. Nonostante il numero di malattie infettive contro cui si esegue la vaccinazione nei primi due anni di vita sia aumentato rispetto a qualche decennio fa (fino allo scorso anno l’obbligo era per 4, oggi è per 10), il numero massimo di antigeni, attualmente somministrati, «è inferiore a quello che i bambini italiani ricevevano in passato: è stato stimato che sommando tutti i vaccini nei primi due anni di vita si giunge a un numero complessivo di circa 250 antigeni». Al contrario, precisano gli esperti Iss, «qualsiasi malattia infettiva causata da un singolo agente patogeno comporta l’esposizione dell’organismo a migliaia di antigeni». Quanto al dubbio rispetto all’età a cui vengono somministrati, precisano, «a due mesi di vita, il sistema immunitario del bambino è già in grado di rispondere alla vaccinazione e aspettare non serve ad aumentare la sicurezza. Al contrario, rimandare le vaccinazioni prolunga il periodo in cui il bambino è suscettibile alle infezioni prevenibili, e alcune malattie sono molto più pericolose se contratte nei primi mesi di vita». Ma la domanda delle domande è: i vaccini multipli (come esavalente e trivalente) indeboliscono il sistema immunitario? Se così fosse, dovremmo osservare un aumento di infezioni batteriche e virali dopo le vaccinazioni. Ma così non è, come mostra un solido studio pubblicato su Jama. Gli autori hanno selezionato 193 bimbi tra 2 e 4 anni con una diagnosi di infezione non prevenibile con la vaccinazione (ad esempio delle vie respiratorie) e 751 casi senza: la probabilità di esser ricoverato era uguale tra chi era stato sottoposto a vaccini cumulativi nei primi mesi di vita e chi non lo era stato.

 

L’eccesso di alcol altera il microbioma orale e predispone ad alcuni tumori

(da Odontoiatria33)   L’eccessivo consumo di alcol modifica il microbioma orale, aumentando la presenza  di batteri patogeni; questa condizione può  favorire lo sviluppo di tumori della testa, del collo e del tratto digestivo. È quanto si legge sul numero di aprile della rivista  Microbiome dove viene presentata la ricerca di Jiyoung Ahn; l’autore da anni guida un team di scienziati del Perlmutter Cancer Center del Nyu Langone Health di New York City che studia i rapporti tra il microbioma umano (l’insieme dei microrganismi che vivono in simbiosi nel tratto digerente, dalla bocca all’ano) e numerose patologie neoplastiche.  I ricercatori hanno analizzato il ruolo dell’alcol sul microbioma orale con uno studio trasversale su 1044 adulti statunitensi (età media 67,7 anni, 95% caucasici), che prendevano parte a due ricerche sul cancro, attualmente in corso.   Al momento dell’adesione al progetto, tutti i partecipanti erano sani; hanno fornito campioni del loro microbioma orale e informazioni sul consumo di alcol: il 25,9% dei soggetti erano astemi, il 58,8% bevitori moderati e il 15,3% bevitori accaniti.  Tra i consumatori di alcol, il 13% beveva solo vino, il 5% solo birra a il 3,4% solo liquori. Il gruppo dei bevitori presentava percentuali più elevate di uomini e di fumatori.   Tra forti bevitori e astemi si registrava una spiccata diversità del microbioma orale e dei profili batterici in genere: una riduzione dei Lactobacilli commensali tra i consumatori di alcol; i bevitori accaniti presentavano una netta prevalenza di Actinomiceti, Leptotrichia, Cardiobacterium e Neisseria.   Gli autori osservano che alcuni di questi generi contengono specie patogene, mentre la Neisseria può sintetizzare dall’etanolo l’acetaldeide, una sostanza cancerogena per gli uomini.  Dopo avere verificato il livello di consumo di alcol, il team ha riscontrato che la diversità microbica e i profili differivano in modo significativo tra astemi e bevitori. Il consumo di alcol influisce sul microbioma orale, potenzialmente aumentando la potenza dei batteri patogeni presenti. “La disbiosi del microbioma orale può portare a patologia orale locale e potenzialmente a tumori della testa, del collo e del tratto digestivo” è la sintesi conclusiva di Jiyoung Ahn.

(Microbiome 2018 6:59. Drinking alcohol is associated with variation in the human oral microbiome in a large study of American adults – Xiaozhou Fan, Brandilyn A. Peters, Eric J. Jacobs, Susan M. Gapstur, Mark P. Purdue, Neal D. Freedman, Alexander V. Alekseyenko, Jing Wu, Liying Yang, Zhiheng Pei, Richard B. Hayes and Jiyoung Ahn) 

Privacy, attenzione: il GDPR è pienamente operativo dal 25 maggio

(da Fimmg.org)   Il Nuovo Regolamento Europeo per il Trattamento dei Dati Personali (GDPR) è in pieno vigore dal 25 Maggio. Era prevista, anticipatamente a questa data, l’emanazione di un decreto da parte del Governo sulla base di una Legge delega dell’Ottobre 2017 per adeguare la normativa italiana al GDPR, unicamente a riguardo delle materie in cui lo stesso GDPR prevede la competenza delle normative nazionali: sempre sulla base della stessa Legge delega, la scadenza ultima per la sua emanazione è quella del 21 Agosto 2018.  La posticipazione dell’uscita di tale decreto non è quindi da intendersi come proroga rispetto ai termini del 25 Maggio 2018, data per la quale era necessario adempiere al complesso normativo riportato nel GDPR.  Il Garante italiano, allineandosi alle posizione dell’Autorità garante francese, ha dichiarato l’istituzione di un grace period, durante il quale non sanzionerà i soggetti che, a seguito di ispezioni, dovessero risultare inadempienti rispetto ai nuovi obblighi. I titolari dovranno però dimostrare di essere in buona fede e di avere avviato un processo di adeguamento e uno spirito di collaborazione con l’Autorità. Resteranno sanzionabili le condotte che violano regole già consolidate da tempo nella normativa nazionale e confermati dal GDPR. Resta ovviamente inteso che le suddette Autorità non hanno – né avrebbero potuto farlo – prorogato la piena operatività del GDPR, che rimane il 25 maggio 2018. E’ pertanto necessario che tutti coloro che sono coinvolti dalla nuova normativa procedano al più presto ad adeguarsi alla stessa.

Pronto soccorso, aumentano pazienti over 80. Simeu: serve nuovo modello cure

(da Doctor33)   I pazienti con più di 80 anni sono in Italia circa 5 milioni e aumentano nei Pronto soccorso nazionali al ritmo di circa 100.000 all’anno. Di questi circa il 50% vengono ricoverati dopo le cure in urgenza. Il dato emerge da una ricerca presentata dalla Società italiana di medicina di emergenza-urgenza (Simeu) in occasione del congresso nazionale di Roma. Si tratta di pazienti particolari, affermano gli esperti, che presentano varie comorbilità, che comportano politerapia farmacologica, fattori che determinano un quadro clinico complesso. Si definiscono “fragili” perché spesso al problema sanitario si associano stress psichico, disabilità scarso o assente sostegno familiare e quindi alto rischio di ricovero in lungodegenza. La compresenza di questi fattori determina un aumento della mortalità. Per questi pazienti, che assorbono una rilevante percentuale delle risorse sanitarie totali, avverte la Simeu, «è urgente un approccio specifico: in conseguenza del declino fisiologico di molteplici organi e apparati, presentano manifestazioni patologiche nel 90% dei casi differenti dalle manifestazioni in un paziente più giovane. Così come sono differenti gli esiti dei farmaci». Dunque, «non bisogna curare una determinata patologia nell’anziano» afferma Francesco Rocco Pugliese, presidente nazionale Simeu «ma bisogna curare l’anziano che presenta quella patologia. È necessaria una presa in carico globale del paziente anziano, tenendo conto delle caratteristiche legate all’età. Quindi innanzitutto deve cambiare l’approccio culturale a questo particolare tipo di paziente, ma poi necessariamente bisogna immaginare una differente organizzazione delle cure». Nell’ottica di sviluppare percorsi di cura dedicati a questo particolare tipo di paziente, Simeu ha iniziato a lavorare con la Società italiana di geriatria ospedale e territorio (Sigot). Inoltre, Simeu ha inaugurato durante il Congresso in corso il primo corso per professionisti sanitari sulla gestione del Grande Anziano in urgenza. Il punto, conclude Pugliese, è che «gli ospedali, in collaborazione stretta con i servizi territoriali, devono trasformarsi per accogliere questo nuovo tipo di paziente per affrontarne la patologia acuta».

 

Definita la frequenza di esercizio fisico per rimanere giovani

(da M.D.Digital)  Quattro o cinque sessioni di attività fisica alla settimana sono quanto basta a mantenere giovane il cuore. Lo afferma una ricerca pubblicata sul Journal of Physiology i cui risultati potrebbero rappresentare un importante passo avanti per sviluppare strategie di esercizio in grado di rallentare l’invecchiamento. La frequenza ottimale di allenamento è stato per lungo tempo oggetto di un acceso dibattito: questa nuova ricerca ha dimostrato che i diversi calibri delle arterie sono influenzati in modo differente da diverse “quantità” di esercizio: praticare 30 minuti di esercizio per 2-3 giorni alla settimana può essere sufficiente per ridurre al minimo l’irrigidimento delle arterie di medie dimensioni, mentre aumentare la frequenza a 4-5 giorni alla settimana permette di mantenere giovanile le arterie centrali più grandi.
Gli autori hanno seguito un gruppo di 102 persone di età superiore a 60 anni, per i quali era disponibile la registrazione della cronologia degli esercizi di lunga durata. In tutti i partecipanti sono state raccolte misure dettagliate della rigidità arteriosa. In base alla frequenza di esercizio fisico sono state definite quattro categorie: sedentario (meno di 2 sessioni di allenamento/settimana), esercizio occasionale (2-3 sessioni di allenamento/settimana), esercizio impegnato (4-5 sessioni di allenamento/settimana) e Masters Athletes (6-7 sessioni di allenamento a settimana). Le sessione di allenamento avevano una durata di almeno 30 minuti.
Dopo aver analizzato i risultati, il team di ricercato ha rilevato che una lunga storia di esercizi casuali (2-3 volte a settimana) determinava una condizione di minore rigidità delle arterie di medio calibro che irrorano collo e testa (la rigidità o stifnness è da considerarsi una conseguenza dell’invecchiamento); nei soggetti che si allenavano 4-5 volte alla settimana la minore rigidità coinvolgeva anche le avevano anche arterie centrali del torace e dell’addome.  Il fatto che per mantenere in buone condizioni le arterie di calibro maggiore sia necessario aumentare la frequenza degli allenamenti aiuterà lo sviluppo di programmi di esercizi a lungo termine. Inoltre, sarà interessante approfondire l’eventualità che l’invecchiamento del cuore possa essere invertito o meno grazie a un programma di un esercizio fisico mantenuto per un lungo periodo di tempo.
Rimangono ancora da valutare alcuni aspetti: lo studio infatti ha alcune limitazioni, a partire dal fatto che gli individui sono stati assegnati a gruppi in base alla frequenza degli esercizi passati, al contrario di altri componenti di programmi di allenamento che considerano l’intensità, la durata o la modalità, ognuno dei quali potrebbe avere grandi impatti sugli adattamenti vascolari. Inoltre, altri elementi che non misurati – come l’assunzione di alimenti e il background sociale – potrebbero influenzare indirettamente la compliance arteriosa.  Questi risultati sono davvero di grande interesse, commentano gli autori, perché consentono di sviluppare programmi di allenamento per mantenere il cuore giovane e addirittura per far regredire l’invecchiamento. Studi precedenti avevano dimostrato che un intervento messo in atto dopo 70 anni è troppo tardi per invertire l’invecchiamento del cuore, in quanto è difficile cambiare la struttura cardiovascolare anche con un anno di allenamento. Questo studio si è concentrato su due anni di attività in uomini e donne di mezza età, con e senza fattori di rischio per le malattie cardiache, per valutare se è possiamo invertire l’invecchiamento dell’apparato cardiocircolatorio utilizzando la giusta intensità di frequenza di allenamento.
(Shibata S, et al. The effect of lifelong exercise frequency on arterial stiffness. J Physiol 2018; https://doi.org/10.1113/JP275301)

Frutta e verdura: attenzione a quella sporca dozzina!

(da M.D.Digital)  La maggior parte dei consumatori non sa che i residui dei pesticidi sono una presenza comune nella frutta e nella verdura che viene acquistata e consumata. E purtroppo non serve che i vegetali vengano lavati o pelati: un’analisi condotta da un’associazione ambientalista americana, l’Environmental Working Group (EWG), ha messo in evidenza che circa il 70% dei campioni di prodotti coltivati convenzionalmente risulta contaminato con residui di pesticidi.  I test condotti dal dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti d’America (United States Department of Agriculture, USDA) hanno riscontrato un totale di 230 diversi pesticidi e prodotti della loro degradazione in migliaia di campioni di prodotti analizzati. L’analisi dei test condotti dall’EWG ha rilevato che esistono nette differenze tra i vari tipi di sostanze tossiche presenti e sulla base di questi risultati ha compilato una Guida per gli acquirenti che include frutta e verdura in due categorie: quella definita “la sporca dozzina” (Dirty Dozen) che include prodotti con il maggior numero di residui di antiparassitari, e un secondo elenco di 15 prodotti “puliti” (Clean Fifteen), nei quali i residui erano presenti in basse quantità se non addirittura assenti.

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Infarto: probabilità decesso doppia per donne under 60

(da AGI)  Per le donne sotto i sessant’anni la probabilità di decesso dopo aver subito un infarto è doppia rispetto agli uomini. Lo rivela uno studio messo a punto da un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna in collaborazione con l’Università della California e da poco pubblicato su JAMA Internal Medicine. Un risultato, questo, che restituisce importanti indicazioni per lo sviluppo di nuovi farmaci più efficaci e mirati.  L’alta mortalità delle donne colpite da infarto miocardico è un fatto noto da tempo: fino ad oggi, però, la spiegazione di questo fenomeno era attribuita principalmente ad una disparità di trattamento ospedaliero a sfavore delle donne, dovuta a sintomi che sono spesso più difficili da individuare. Al posto del “classico” dolore toracico, infatti, l’infarto nelle donne può manifestarsi inizialmente con segnali più generici, ad esempio respiro corto, nausea, vomito, dolore alla schiena, al collo o alla mascella. Tutto questo però – sostengono i ricercatori che hanno messo a punto lo studio – non è comunque sufficiente per giustificare l’elevata mortalità delle donne under 60 che subiscono un infarto: si sono così ipotizzati anche fattori biologici che renderebbero le donne più vulnerabili rispetto agli uomini. Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno preso in considerazione i dati di 2.657 donne e 6.177 uomini trattati per infarto miocardico in oltre quaranta ospedali di dodici diversi paesi europei. Utilizzando tecniche di sequenziamento statistico e di machine learning hanno quindi elaborato le oltre venti variabili fisiopatologiche elencate per ciascun paziente, arrivando a dimostrare che nessuna di queste giustifica del tutto il diverso livello di mortalità tra uomini e donne.  “Le donne under 60 colpite da infarto miocardico hanno quasi il doppio delle probabilità di morire in ospedale rispetto agli uomini della stessa età, con una incidenza di decessi di circa il 12% contro il 6% degli uomini”, spiega Edina Cenko, giovane ricercatrice dell’Università di Bologna che ha lavorato allo studio. “Quando l’infarto si presenta nelle donne, quindi, oltre a stili di vita scorretti, una discreta quota di responsabilità è da ascrivere alla biologia e alla genetica”.
Il risultato di questa analisi può portare a importanti ripercussioni nel processo di sviluppo di nuovi farmaci per l’infarto. “Il sesso femminile è un fattore biologico e va tenuto in considerazione per capire se un farmaco per l’infarto è realmente utile anche nelle donne”, spiega ancora Edina Cenko. “I nuovi farmaci dovranno essere studiati separatamente sulle donne e sugli uomini. Un processo che per le industrie farmaceutiche vorrà dire più spese e tempi più lunghi di esecuzione delle fasi di test. Ma vorrà dire anche più salute per le donne”.

(JAMA Internal Medicine – “Sex Differences in Outcomes After STEMI: Effect Modification by Treatment Strategy and Age”)

 

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